L’estate più bella
Le vacanze più significative, che restano nel cuore, sono quelle spese al servizio degli altri. Dei poveri, degli anziani soli, dei disabili, dei carcerati. Perché ogni sorriso donato e ricevuto ritempra l’anima e lo spirito. Come dimostrano le tre storie, esemplari e straordinarie, che vi raccontiamo.
L’estate più bella era il titolo della più diffusa rivista italiana alla fine degli anni Settanta: in copertina una splendida ragazza che abbracciava un disabile tra le acque della Versilia. Il pudore di allora aveva fatto ritoccare il bikini indossato dalla giovane, facendolo diventare un costume intero, ma il messaggio era chiaro: tutti hanno diritto di vivere a pieno le proprie vacanze, anche i disabili e le loro famiglie. Al netto del moralismo, la battaglia portata avanti da un gruppo di volontari cattolici aveva conquistato una posizione sulla quale non si poteva arretrare. Lo scandalo vero erano famiglie con persone con handicap gravi costrette al nascondimento, per non “disturbare” le placide ferie dei borghesi. A raccontare quegli anni di feroci scontri per l’inclusività era, fino a pochi mesi fa, Luigi Bardelli, fondatore e presidente per decenni della Maic, l’associazione pistoiese che come sigla ha l’acronimo di Maria Assunta in Cielo. Oggi l’allievo di don Lorenzo Milani e Giorgio La Pira ha traslocato in Paradiso, ma l’intuizione che, oltre cinquant’anni fa, portò alla liberazione di uomini e donne prigionieri delle loro malformazioni ha fatto scuola. L’estate è di tutti, delle famiglie che non possono permettersi di abdicare al loro ruolo di sostegno, di chi non ha la possibilità di staccare la spina, di chi è costretto a vivere in un mondo a parte. Dall’idea che l’estate più bella è quella che rende liberi perché al servizio degli altri, nasce il nostro viaggio nelle vacanze alternative. Dai lidi della Versilia, dove finalmente nessuno mette più in discussione il diritto a stendersi al sole di corpi deformati, alle nuove periferie del mondo.
LO SPLENDORE NEL FANGO DI KIBERA
Tutto inizia in un’aula dell’Istituto superiore Giovanni Giorgi, periferia milanese, a pochi passi dalla Barona. Raffaella ci arriva a fine carriera, dopo anni da insegnante al prestigioso liceo Berchet di Milano. Non ha perso la passione e il desiderio di confrontarsi con chi non ha ancora i capelli candidi, come i suoi. Così, quando il suo amico Antonino Masuri, operatore dell’Associazione volontari per il servizio internazionale (Avsi) a Nairobi, passa dalla metropoli, Raffaella organizza al volo un incontro con i suoi alunni. L’obiettivo è ampliare lo sguardo, offrire un’altra visione, insinuare la possibilità di vite distanti e diverse. Masu non fa in tempo a raccontare di sé e del suo lavoro a Kibera, la più grande baraccopoli del mondo, che un ragazzo lancia la sua provocazione: «Ma chi cazzo glielo ha fatto fare di andare in un posto di merda così?». Il gergo è quello che domina il bronx milanese, la sfacciataggine pure, necessaria se non si vuole soccombere nei territori di confine. Ma Masuri, abituato agli inferni keniani, non si scompone, accoglie l’invito e costruisce un dialogo serrato sulle logiche che lo hanno portato dalla Sardegna, passando per l’università di Perugia, nel cuore dell’Africa. Poi rilancia. Venite a vedere. Nessuno dei ragazzi presenti lo farà, ma Raffaella accetta. Così si ritrova a vivere un’estate che non riesce più a scrollarsi di dosso.
Il seguito sulla rivista.
LE CUSTODI DELLE CHIAVI
La facciata della piccola e antichissima chiesa di Santa Lucia della Tinta brilla nella calura estiva. Nei mesi più afosi il rione capitolino di campo Marzio diventa dominio dei turisti sbracciati, arrostiti dal sole, alla disperata ricerca di refrigerio tra le bollenti pietre della città. Esercizi commerciali chiusi, il Tevere pigro e melmoso, il quartiere svuotato. È Roma nella sua veste agostana, splendente e sontuosa come sempre, senza anima per la fuga temporanea degli abitanti. Eppure, anche nel ricco centro, quello dei palazzi nobiliari e degli androni lussuosi, si nascondono povertà inimmaginabili. Come quella di Colette, 97 anni, di origine francese, troppo anziana e troppo sola per raggiungere lidi o chalet di montagna, costretta all’esilio in una casa grande, ma vuota. A scandire il suo tempo una routine sempre uguale: la messa proprio nella chiesa dedicata alla martire romana e poi il pranzo alla Fraterna Domus, la casa d’accoglienza vicina a Santa Lucia, gestita dalle sorelle dell’omonima comunità. L’estate può essere crudele per chi ha come compagna la solitudine e la fraternità della porta accanto restituisce dignità. Nel via vai di turisti che alloggiano nel palazzo seicentesco che ospita la comunità, fanno capolino coloro che sono stati abbandonati all’isolamento della Roma senza romani. Si tratta in gran parte di persone in là con gli anni, spesso non italiane, che il destino ha portato nella città eterna.
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UN’ESTATE AL FRESCO
Lo scatto metallico delle serrature, il progressivo allontanamento dal “fuori”, che si trasforma in un “dentro” fatto di grigiore e sudore. L’aria che manca e il respiro che si fa affannoso. Entrare in carcere è sempre un’esperienza che toglie il fiato. Milena e Pancho lo sanno bene. Dopo mesi di visite alla casa circondariale di Venezia, non si sono ancora abituati all’odore di ferro. Sono volontari, marito e moglie: ingegnere lui, dipendente del patriarcato di Venezia lei. Entrambi appassionati d’arte, irrimediabilmente catturati dal fascino malinconico e unico della città lagunare. Hanno iniziato a bazzicare la popolare zona di santa Marta, alle spalle di piazzale Roma, dove un tempo abitavano i portuali, per caso o per Dio. Dipende dal grado di fede. Suor Virginiana, religiosa che si occupa di pastorale sanitaria, incrocia Milena, che da tempo fa parte, insieme al marito, del gruppo di guide che accompagnano i visitatori alla scoperta di San Marco, e si lascia sfuggire un desiderio che diventa immediatamente una provocazione: «Mi piacerebbe che si potesse portare in carcere la bellezza di Venezia». Così inizia l’avventura dei due coniugi dietro le sbarre: non solo lezioni d‘arte per detenuti in attesa di giudizio o uomini che scontano la loro pena, ma incontri dell’anima, inseriti in un percorso di fede e di maturazione.
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di Cristiana Caricato