Identikit dei contratti collettivi

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Introdotti nel 1927, i Ccnl sono oggi più di mille. Entrati nel dibattito come “avversari” del salario minimo, presentano varie questioni aperte.

Sono decine e decine e di loro si è parlato tanto durante l’estate da poco conclusa. I Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl), entrati prepotentemente nel dibattito politico come “avversari” del salario minimo, sono accordi stipulati tra le organizzazioni sindacali che rappresentano i lavoratori e le associazioni dei datori di lavoro. Disciplinano i rapporti tra dipendenti e aziende e stabiliscono retribuzione minima, numero di ore da trascorrere in ufficio o in fabbrica, modalità per effettuare gli straordinari, scatti di anzianità e molto altro.
La banca dati ufficiale è tenuta dal Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), che gestisce un archivio elettronico di tutti i contratti collettivi attuali e passati. Sì, perché ogni categoria di lavoratori ha il proprio contratto collettivo. O meglio, molti settori hanno il Ccnl, ma non tutti.
Una storia, quella di tali contratti, che inizia nel 1927 con la promulgazione della Carta del lavoro, introdotta da Benito Mussolini, e che compie un passo importante nel 1941, quando l’accordo acquisisce valore giuridico.
In seguito la Costituzione della Repubblica conferma, all’articolo 39, che i rapporti di lavoro possono essere regolati da Contratti collettivi stipulati a livello nazionale. Da questo momento, il Ccnl vede alternarsi periodi di boom e momenti in cui pare scivolare nell’ombra.
Oggi i contratti collettivi depositati nell’archivio nazionale del Cnel sono oltre mille (1.037 per la precisione). Nel 2022 erano 936, nel 2012 erano 551. Una giungla che riguarda il settore privato (976 contratti), pubblico, lavoratori parasubordinati e alcune categorie di lavoratori autonomi.
Quattro le questioni aperte portate alla ribalta negli ultimi mesi.
La confusione, anzitutto. Guardando ai Ccnl del privato, circa due su dieci sono sottoscritti dai sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil), i restanti otto da altre organizzazioni sindacali. Ma i lavoratori cui viene applicato il contratto confederale sono circa il 97 per cento. «Questa proliferazione contrattuale nulla ha a che vedere con l’espansione del numero di lavoratori a cui viene applicato un contratto, né con migliori condizioni di lavoro, perché spesso i contratti prevedono condizioni inferiori rispetto a quelle dei Ccnl confederali», spiega Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio.

Il seguito sulla rivista.

di Cristina Colli

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