Il difficile equilibrio tra proteggerei figli e lasciarli andare

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Due dei miei figli mi hanno amorevolmente rimproverato. Nel corso di una piacevole chiacchierata serale, hanno contestato un mio pensiero frequente. Non puoi mettere sullo stesso piano – mi hanno detto in pratica e con decisione – i tormenti di un padre in occasione di una tragedia con i tuoi. Non c’è paragone.
Avevo, infatti, citato Paolo Origliasso, 49 anni, padre della piccola Laura, la bimba morta dopo che un Mb-339 delle Frecce tricolori, a settembre, è uscito dalla pista dell’aeroporto di Caselle, a Torino, e ha travolto come una palla di fuoco l’auto su cui la piccola viaggiava insieme al papà, alla madre Veronica Vernetto e al fratello di 12 anni. Mi hanno colpito (avrei voluto abbracciarlo, consolarlo) le sue parole: «Non sono riuscito a salvarla». Vano il tentativo di liberarla da quel seggiolino dell’auto in fiamme in cui l’aveva, diligentemente, adagiata. 
Il signor Paolo mi sta ancora impresso nei pensieri, come una frase, un appello, un grido che sento spesso dentro di me, anche se non c’è alcun pericolo in vista. Un padre (mediamente) prudente e amorevole, oggi più che mai, teme, si guarda intorno, tenta di fare il possibile, il massimo, per salvare i propri figli dal male. Ma i miei figli mi hanno fatto, appunto, notare che il mio pensiero è sbagliato. Hanno ragione: non si può vivere così e il paragone non regge. 
Nelle settimane successive, quelle della tragedia in Medio Oriente, il pensiero si è esteso, riecheggiando le parole strazianti del padre di Noa, la giovane rapita dai terroristi di Hamas. «Stavolta non sono riuscito a proteggerla», ha detto tra le lacrime. E chissà quanti altri padri ancora, che non possiamo fare altro che accompagnare nella preghiera.

Il seguito sulla rivista.

di Vittorio Sammarco

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