Dove ti metto il bimbo?
Sono stati fatti passi in avanti. Ma i servizi di cura per la prima infanzia, in Italia, restano pochi, al di sotto del target europeo. Inoltre, la loro diffusione resta disomogenea nelle diverse regioni. Con forti ripercussioni sulla gestione del ménage familiare.
È settembre e, come ogni anno, oltre alla malinconia per la fine dell’estate e l’arrivo dell’autunno, c’è quella dovuta alla ripartenza della vita quotidiana con tutte le incombenze che porta con sé. Per chi ha figli ricomincia il tetris dell’organizzazione tra scuola, attività sportive, lavoro e tempo libero. Una faticosa quotidianità fatta di corse e “incastri” che può cambiare radicalmente col passaggio del proprio figlio da un ciclo scolastico all’altro o da un corso a un altro. C’è però una fascia d’età – quella tra gli zero e i tre anni – particolarmente impegnativa per i genitori, che non conosce routine. In settembre riaprono gli asili nido che iniziano gradualmente gli inserimenti di nuovi piccoli. Per chi vi ha trovato posto significa un cambio di vita, per chi è rimasto fuori una rincorsa tra sussidi, eventuali disponibilità dei nonni e di una o più babysitter.
Il nostro Paese è uno dei meno solidali verso le famiglie con prole. O meglio, se per la fascia compresa tra i tre e i sei anni ci collochiamo tra quelli con il maggior sviluppo dei servizi, nella cura dei primi mille giorni siamo ancora lontani dal garantire un’offerta adeguata. Pur senza ambire agli elevati standard dei Paesi nordici, in particolare della Danimarca, o di Francia e Paesi Bassi che seguono a ruota, anche Germania e Regno Unito, rimasti indietro per molto tempo, hanno recuperato terreno.
Spagna e Italia sono, invece, da bollino rosso, non solo per quanto riguarda i sussidi o i contributi – in Francia è possibile dedurre fino a 7.500 euro all’anno dal compenso assegnato a babysitter per minori di sei anni – ma anche per i congedi. In Norvegia si può usufruire di 46 settimane di congedo retribuite al 100 per cento, mentre in Italia il congedo parentale è attivo solo dal 2013 e i giorni di paternità sono dieci, fanalino di coda europeo. Ciò la dice lunga anche su una mentalità che ritiene il compito di cura esclusivo delle madri: secondo i dati raccolti da Eurobarometro, poco più della metà degli italiani è convinto che debba essere così.
E poi, una donna con un figlio di 15 anni guadagna circa 6 mila euro annui in meno di una senza figli e, dato ancora più allarmante, è stato dimostrato che la disoccupazione femminile è correlata in modo inequivocabile al mancato accesso ai servizi scolastici per l’infanzia. Proprio per questo il Consiglio europeo di Barcellona, ancora nel 2002, aveva ratificato che al 90 per cento dei piccoli dai tre anni fino alla scuola dell’obbligo e al 33 per cento di quelli al di sotto dei tre anni dovessero essere garantiti servizi di alta qualità a prezzi accessibili. Pratiche ancora disattese, ragion per cui la Commissione europea ha rafforzato il messaggio nel 2018: «La difficoltà di coniugare la vita professionale e la crescita dei bambini rappresenta la causa della scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro, con 370 miliardi di euro all’anno di perdite per l’Europa».
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di Marta Perrini