La pace che salva

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A un mese dalla tragedia di Cutro ci si interroga sulle azioni da intraprendere per arginare i naufragi. Solo fermando i conflitti, promuovendo la giustizia, assicurando i diritti si riusciranno a governare gli sbarchi. Che nessun porto chiuso potrà mai fermare.

Quando Sergio Mattarella è andato a Crotone, a portare il cordoglio di tutto il Paese per quelle morti in mare che si aggiungono alle migliaia che abbiamo già dovuto contare, l’Italia reale ha respirato il senso di essere comunità nell’accezione più ampia di cittadini del mondo, abitanti, tutti, di un pianeta che per alcuni è più ostile che per altri. Solo, davanti a quelle bare, nel Palamilone dove erano riecheggiate le grida strazianti dei parenti che riconoscevano le vittime, il presidente della Repubblica ha fatto più che un gesto simbolico. La sua presenza, con quei giocattoli che ha regalato ai bambini superstiti, la sua preghiera muta, il suo ascoltare i cittadini hanno incarnato lo spirito profondo della nostra Costituzione. Quella che garantisce allo «straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», il «diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» e che riconosce a tutti i cittadini, migranti compresi, la «pari dignità sociale» e l’eguaglianza «senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Se mettessimo davvero in pratica la nostra Carta, quella che tutti ci dicono essere la più bella del mondo – con lo stesso plauso che tutti riconoscono anche al nostro veliero Vespucci –, solcheremmo le acque impervie che la vita spesso ci mette di fronte facendo squadra, come un solo equipaggio, con il resto dell’umanità. Vivere e far vivere bene sapendo che un giorno tutti lasceremo questa terra e che l’impronta che possiamo imprimere, se vogliamo davvero essere ricordati, è quella di chi ha saputo camminare accanto agli altri sollevandone, per quanto possibile, i pesi.
DI fronte ai morti di Crotone servono azioni concrete. Serve gestire un fenomeno che è vecchio quanto il mondo. Da sempre uomini e donne si sono spostati dalle loro terre d’origine verso altre più ospitali, più feconde, più semplici da abitare. Uno spostamento che è partito proprio da quell’Africa da cui ancora oggi originano tanti flussi migratori. Andando indietro nella storia furono gli ominidi, i nostri più lontani antenati, nati nella foresta umida di quel Continente, a diffondersi nel resto del pianeta. E lo fecero andando alla ricerca di cibo. Prima quello cacciato, pescato, raccolto spontaneamente e poi, dal neolitico in avanti, quello prodotto da sé grazie all’agricoltura, all’allevamento e a stili di vita più sedentari. Le nazioni, i confini come li conosciamo adesso erano di là da venire. Ma c’erano già conflitti e guerre per accaparrarsi le terre più fertili. E poi, e poi…
Dovremmo ricordare il Tigri, l’Eufrate, la civiltà degli Egizi, i numeri inventati dagli arabi, la cultura greca… Siamo frutto di mille mescolanze, non ci siamo fatti da soli e dal nulla. Noi italiani meno che meno.
E non abbiamo scoperto nulla in questo secolo che già l’umanità non avesse sperimentato in passato. Il passo in avanti che, però, dovremmo avere già compiuto è quello della civiltà di rapporti, che non dovrebbero essere più regolati da violenza e sfruttamento. Lo abbiamo messo per iscritto in tante leggi e nel fondare tante istituzioni. Le Nazioni Unite, la Carta dei diritti dell’uomo, la stessa Europa unita. Un vecchio adagio dice che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Un mare, abbiamo imparato, che da vita si trasforma in cimitero, onde che portano a fondo invece che cullare.

Il seguito sulla rivista.

di Annachiara Valle

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