Per una ciocca di capelli

L’iraniana Mahsa Amini, uccisa dalla polizia perché non portava il velo correttamente, è diventata il simbolo delle rivolte femminili. Eroina come le sorelle Mirabal, massacrate il 25 novembre 1960 nella Repubblica Dominicana.

A Teheran, nel parco Danjesho, c’è una fontana che gronda sangue: un gruppo di artisti, rimasti anonimi, ha colorato l’acqua di rosso per denunciare le violazioni dei diritti femminili. Un’opera d’arte che racconta il sangue di tutte le donne violate, picchiate, torturate, uccise. Che racconta il sangue di Mahsa Amini, 22 anni, fermata dalla polizia religiosa lo scorso settembre nella capitale iraniana perché non indossava correttamente il velo. Portata via dalle autorità, è morta pochi giorni dopo in ospedale, con il corpo coperto di lividi.
Da allora in Iran sono scese in piazza, nonostante il divieto, migliaia di persone per protestare contro un regime integralista che nega le libertà femminili. Tra i manifestanti ci sono soprattutto le donne, che hanno bruciato simbolicamente il loro hijab o si sono fatte tagliare i capelli, un gesto proibito dalle norme religiose. Al loro fianco si scorgono, però, anche molti uomini, pronti a sostenere le medesime battaglie. Una presenza fondamentale, necessaria, visto che non sarà possibile arginare secoli di patriarcato finché non saranno gli uomini stessi a condividere le lotte delle donne. Donne che vanno anche incontro alla morte pur di partecipare ai cortei che stanno dilagando in tutto il Paese. Hadis Najafi, vent’anni, protestava a capo scoperto, con la sua bella coda di cavallo bionda, quando è stata raggiunta e uccisa da sei colpi di pistola.
Non manca la denuncia di Amnesty International, secondo cui sono «centinaia le donne che languono nelle prigioni iraniane solo per aver lottato contro leggi discriminatorie». Di loro non dobbiamo dimenticarci, neppure quando le proteste in Iran non saranno più d’attualità.

Il seguito sulla rivista.

di Paola Arosio

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