Come essere cristiani oggi
Per il cardinale Jozef De Kesel, la crisi dell’Occidente è un’occasione per riscoprire, in un mondo multiculturale e multireligioso, una Chiesa più umile, più aperta al dialogo e alla solidarietà.
Viviamo un tempo di cambiamenti continui, celeri, non sempre comprensibili. Anche papa Francesco, più di una volta, ha affermato che stiamo attraversando un periodo di trasformazione epocale. Non riferendosi unicamente alla Chiesa, ma alla società, che in pochi anni si è radicalmente modificata e secolarizzata. In questo contesto, diventa sempre più urgente per i credenti la domanda circa il futuro della religione e, più nello specifico, del cristianesimo in Occidente.
A partire dai dibattiti su questi temi e dalla sua esperienza come arcivescovo di Bruxelles, Jozef De Kesel ha scritto un libro, Cristiani in un mondo che non lo è +. La fede nella società moderna, recentemente pubblicato dalla Libreria editrice vaticana (Lev).
La prima parte del volume è dedicata alla ricostruzione storica dell’avvento della modernità: con la pace di Vestfalia del 1648 viene sancita la fine delle guerre di religione. Finalmente ciascuno è libero di scegliere il proprio credo. Da questo momento nasce il rispetto dell’altro come valore e cessa di esistere in Occidente la società religiosa, quella in cui il quadro di riferimento è la fede. Fino alla fine degli anni Quaranta la società era cristiana, non esistevano musulmani se non fuori dalle frontiere e l’unica eccezione era rappresentata dagli ebrei, la cui situazione restava, però, precaria.
«Per capire meglio cosa si intende con società religiosa, basti pensare ai Paesi musulmani», spiega De Kesel. «Oggi in Marocco non è possibile definirsi contemporaneamente marocchini e cristiani. In Stati come questo, la situazione per chi non è musulmano diventa difficile: lo dimostrano i 350 mila cristiani rimasti in Iraq, una volta erano molti di più. Non voglio condannare quello che è stato anche il nostro passato, ma sottolineare come una società religiosa possa essere pericolosa. A chi mi domanda se preferisco il predominio di una religione, anche se cristiana, o una cultura secolarizzata, rispondo che opto senza dubbio per la seconda scelta. Ovviamente la secolarizzazione porta con sé alcune criticità, ma per me significa che la Chiesa vive nel mondo. Anche nel Nuovo Testamento, quando la cultura di riferimento non era cristiana, si dice espressamente che la Chiesa è chiamata a testimoniare il Vangelo tra le nazioni. Non si parla di rendere le nazioni cristiane, è una differenza sostanziale, e qui si trova il punto centrale».
Il seguito sulla rivista.
di Marta Perrini