Quando gli anni passano e noi padri diventiamo vulnerabili

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Comincio scrivendo una sorta di pagina aperta, non solo, o non tanto, perché mentre la scrivo non so ancora dove voglio andare a parare, dove va il mio pensiero, ma aperta perché richiede (o almeno richiederebbe se, invece di un articolo su carta, fosse un post digitale) la collaborazione attiva dei lettori. Per farla breve: scrivo mentre penso. E scrivo di un dubbio che da tempo mi insegue, mi accompagna, mi compare davanti all’improvviso. E, mentre lo vedo e lo sento, ecco che lo riconosco presente anche in altri padri. Cioè (provo a sintetizzare, eh, sia chiaro): quando in età matura si è palesemente a contatto con le proprie debolezze, si riesce ancora in qualche modo a essere un supporto per i figli, che hanno ancora bisogno di qualche punto di riferimento? Come emergere da tale inevitabile “trappola”?
L’esempio posso farlo, in concreto, in questi mesi in cui sto vivendo la mia fragilità, divenuta, con un lento ma significativo aggravarsi, vera e propria vulnerabilità. E so che altri padri (ecco l’apparente, ma vera, apertura di cui sopra) condividono lo stesso problema.
Sento la fatica e il peso degli anni, le malattie, la stanchezza, a volte repentini sbalzi di umore, una crescente intolleranza agli egoismi di chi incontro (anche occasionalmente) per strada. E nello stesso momento, nella stessa giornata, o proprio in contemporanea, può accadere che un figlio, turbato da vicende a volte banali, ma spesso importanti per lui, chieda un suggerimento, un aiuto per risolvere il problema.

Il seguito sulla rivista.

di Vittorio Sammarco

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