Il killer in rosa

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Il tumore all’ovaio, che in Italia colpisce ogni anno oltre 5 mila pazienti, è insidioso e aggressivo. Qui le donne dell’associazione Alto raccontano la loro lotta contro la malattia. Chiedendo di investire di più nella ricerca.

Invisibili. Si sentono così le migliaia di donne (oltre 5 mila) che ogni anno si ammalano di cancro ovarico e che lottano contro una malattia che toglie la vita a oltre 3 mila di loro. «Per contrastare questo tumore, che non è molto frequente, servono fondi da investire nella ricerca di nuovi farmaci», sostiene Eliana Merlino, vicepresidente di Alto (Associazione lotta al tumore ovarico, www.altolottatumoreovarico.it). Un gruppo di donne affette dalla patologia che si sono conosciute su Facebook, nel marzo 2023 hanno organizzato una petizione per chiedere più medicinali e più ricerca e hanno fondato l’associazione. Si sono raccontate a Madre, per chiedere di essere “viste”, di contare.
«Vivo sapendo di avere cellule malate sparse nell’organismo che potrebbero riattivarsi», prosegue Merlino, 48 anni, giornalista, che sta studiando per prendere la seconda laurea in scienze biologiche. La diagnosi è arrivata due anni fa, improvvisamente. «Ero stata operata per un piccolo polipo meno di nove mesi prima», ricorda. «Non c’era nulla. Poi la tremenda scoperta. L’attesa degli esami, la disperazione, l’operazione, la chemioterapia. Dopo mesi di attacchi di panico, di crisi profonda, di insonnia, di dolore…si ricomincia. Sono tornata anche all’università. Ma i controlli sono continui e ogni volta attendo i risultati sapendo che rappresentano il confine tra la vita e la morte. La vita non torna più come prima».
Michela Panella con la diagnosi ha avuto anche la certezza che non sarebbe mai diventata mamma. «La mia vita è cambiata il 23 marzo 2021 a 42 anni, facendo un controllo di routine», dice. «Una cisti anomala, i marcatori tumorali e una risonanza. L’attesa dei risultati: quattro giorni infiniti. E la risposta, via mail alle quattro di notte. Fino all’ultimo la speranza che si trattasse di uno sbaglio. Poi le parole “cancro ovarico” e ho sentito il gelo dentro. Dieci giorni dopo l’operazione per togliere le ovaie, con la conseguente menopausa. Il 17 maggio ho iniziato la chemioterapia, un grandissimo strazio. Ma dopo la sesta, la Tac era negativa. Da lì controlli ogni quattro mesi e ora ogni sei. Un’angoscia infinita ogni volta».
Elisabeth Palmeri ha 43 anni, vive a Torino e ha la mutazione Brca1 (vedi box a pagina 24). «Mia mamma morì nel 2012 a causa di un carcinoma ovarico e prima ancora mia nonna. Sono stata sempre molto attenta, controlli assidui, ma questo non è bastato», spiega. Al momento della diagnosi aveva 41 anni, un bimbo di un anno e un papà in ospedale per un ictus. «Ogni piccolo dolore fisico è una preoccupazione», continua. «Quando riguardo le foto precedenti alla malattia, invidio quei momenti, quando non vivevamo nell’attesa logorante di ricevere la risposta dei vari accertamenti. Sì, parlo al plurale, perché quando una persona è malata lo è anche chi le sta vicino».
«Mi chiamo Enza e sono viva… ancora». Enza Bologna, siciliana, 51 anni, malata da quando ne aveva 48, chiarisce: «Per noi, affette da carcinoma ovarico, non è ovvio essere vive a due anni dalla diagnosi. Io ho già sviluppato una resistenza alla chemioterapia.

Il seguito sulla rivista.

di Cristina Colli

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