Sulle vette che non ci sono più

I nostri monti sono sempre più sfruttati, da strutture ricettive e impianti di risalita. In nome di un business destinato a oscurare la vera bellezza dell’ambiente e dei paesaggi montani.

«Vi rompiamo le scatole, signori, perché nessuna fonte appartiene al proprietario del terreno. Magari lui ha il diritto di attingere l’acqua. Ma la fonte appartiene, in modi regolati dalla legge, anche a tutti quelli che vengono dopo. Altrimenti il proprietario delle fonti del Po potrebbe chiudere il rubinetto e lasciare la Pianura Padana all’asciutto. Vi rompiamo le scatole perché un ghiacciaio è un bene pubblico, è una falda acquifera, non lo potete usare come vi pare. È l’acqua che beviamo anche noi. Non potete accelerare il suo scioglimento triturandolo per fare una pista. Non è di Zermatt, non è di Cervinia, è di milioni di persone tra il Monte Rosa e la laguna veneta. È anche mio, che peraltro sono un cittadino valdostano». L’energica presa di posizione dello scrittore Paolo Cognetti, apparsa sul quotidiano La Repubblica lo scorso novembre, ha scaldato un po’ gli animi.
Già, perché il dibattito sul cambiamento climatico è ben presente nell’opinione pubblica italiana. Ma, come dire, è come se fosse quotidianamente, sottilmente, abilmente sorpassato. Quasi messo da parte. Gli intellettuali parlano, gli scrittori scrivono, i musicisti suonano, gli ambientalisti urlano – che brutta parola «ambientalisti», forse dovremmo iniziare a parlare di uomini e donne liberi che amano le montagne e che sulle montagne hanno scommesso futuro, ecologia, solidarietà diffusa –, ma gli imprenditori fanno i loro interessi. Turismo sostenibile? Che brutta parola. Si va avanti, con le ruspe che preparano il terreno agli impianti di risalita, riempiendo crepacci, smuovendo roccia friabile. E la montagna? Quella da scalare e da vedere, quella del sudore della fronte e delle braccia solidali, dei boscaioli e dei pastori, degli artigiani e delle tradizioni che si tramandano da secoli. La montagna non solo delle Alpi, ma degli Appennini, che fine ha fatto? La montagna dei borghi inaspettati e della solitudine abitata che fine ha fatto?
Sciare, punto. L’unica preoccupazione. Portare – a suon di euro – migliaia di turisti mordi e fuggi sempre più in vetta, tramite impianti collegati a rifugi che nel frattempo sono diventati ristoranti stellati, per sciare, senza fatica. Né cultura.
È questa la montagna che vogliamo? Nel frattempo, qualcosa si sta muovendo. Le gare di bob delle Olimpiadi 2026 non si svolgeranno a Cortina. «Devono essere prese in considerazione solo le piste esistenti e già operative», ha dichiarato il Comitato olimpico internazionale.
Il proliferare indisturbato e senza regole dell’industria dello sci e dell’industria turistica in quota lascia davvero senza fiato. È una lotta senza tregua, metro per metro, roccia per roccia. Non si può certo negare che il turismo abbia spesso migliorato le condizioni economiche delle valli e dei borghi circostanti. Parecchie località montane vivono di questo turismo. Il problema è che vivono solo di questo turismo. Come se non ci fosse la possibilità di creare un turismo alternativo, o comunque rispettoso dell’ambiente e del clima. Non è solo un problema odierno, che coinvolge adulti ormai assuefatti all’idea che non si possa vivere in una montagna diversa. È un problema che interessa i giovani, perché anche loro hanno il diritto di ritrovare spazi di futuro possibile, di pace ed equilibrio con la natura.

Il seguito sulla rivista.

di Gianni Di Santo

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