Da fabbricante di armi a sminatore

Di seguito un estratto del libro Ero l’uomo della guerra di Vito Alfieri Fontana, scritto con il giornalista Antonio Sanfrancesco.

Ho vissuto due vite. La prima non l’ho scelta, mi è capitata. Solo adesso, dopo una lunga lotta, l’ho addomesticata, riesco a tenerla a bada e mi fa meno paura.
Nella seconda ho dovuto disfare la tela che avevo costruito nella prima con una decisione che si è rivelata fin da subito un percorso a ostacoli, in cui ho fatto i conti con la mia coscienza, le diffidenze altrui, l’ostilità di mio padre, i silenzi di una parte della famiglia, l’indifferenza di chi non capiva o non voleva capire perché mi fossi imbarcato in quest’avventura.
Negli anni Ottanta, l’Italia era uno dei principali produttori al mondo di mine antiuomo. Insieme alla Valsella Meccanotecnica di Montichiari, una delle aziende principali del settore era la Tecnovar Italiana di Bari, fondata alla fine degli anni Cinquanta da mio padre, l’ingegnere Ludovico Fontana, dove sono entrato a lavorare ufficialmente nel 1977, a ventisei anni.
Per molti anni sono stato io la mente della Tecnovar. Ho progettato la mina TS-50, uno dei modelli più richiesti, esportati e copiati nel mondo per la sua capacità di attivarsi ed esplodere anche a distanza di decenni.
Le mine sono un mezzo partorito dall’infamia dell’uomo per sfregiare, terrorizzare, mutilare e uccidere. La stragrande maggioranza delle vittime sono bambini.
Quando non colpiscono innocenti, servono a rendere inabitabile un territorio per anni dopo la fine di una guerra, tenendo in ostaggio gli abitanti che non possono rientrare nelle proprie case, zappare la terra, portare le bestie al pascolo, passeggiare, andare a curarsi, giocare. In una parola, vivere.
Ho venduto le mine ai governi, soprattutto a quello egiziano, alla luce del sole e nel pieno rispetto della legge italiana. Non sono mai stato un trafficante. Questo, però, non è stato un motivo sufficiente per non farmi domande. Era tutto legale, certo. Ma era anche moralmente giusto?
Mio padre era convinto di quello che faceva. Io, da un certo momento in poi, no.
È stato un rovello che mi ha assillato e stretto d’assedio fino a non lasciarmi più scampo. A volte l’uomo inciampa nella verità, ma nella maggior parte dei casi si rialza e continua per la sua strada. Non è stato questo il mio caso.
La mia prima pietra d’inciampo è stata mio figlio Ludovico (che ha lo stesso nome di mio padre), il quale un giorno, mentre siamo in macchina, vede i cataloghi della Tecnovar e mi chiede cosa sono le mine antiuomo. Glielo spiego. «Papà», mi chiede, «perché devi costruirle proprio tu?». Era l’unica domanda che davvero contava, quella che non mi aveva mai fatto nessuno. Da quel momento dare una risposta a mio figlio è stato il vero, unico problema della mia vita.

Il seguito sulla rivista.

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