Ferrari, epopea in rosso

Il regista Michael Mann racconta la storia del fondatore della nota casa automobilistica, interpretato da Adam Driver. Omaggio a un uomo che ha contribuito a costruire l’Italia.

Il rombo del motore, il celebre 8 cilindri a V di Maranello, fa da sfondo alla complessa vicenda umana di Ferrari, appassionante biopic che Michael Mann ha voluto dedicare alla figura del Drake, genio ineguagliato delle auto sportive, ma anche uomo dall’esistenza tormentata. 
«La prima volta che rimasi folgorato da una Ferrari era il 1967 ed ero a Londra, dove studiavo cinema. A Chicago, dove sono cresciuto, non ce n’erano», ricorda il regista statunitense, 80 anni e fama da cineasta di film d’azione grazie a successi come L’ultimo dei Mohicani con Daniel Day Lewis, Heat-La sfida con Al Pacino e Robert De Niro, Collateral con Tom Cruise, Miami Vice con Colin Farrell e Jamie Foxx, Nemico pubblico con Johnny Depp. «Un giorno mi sono imbattuto per strada in questo oggetto bello, potente, misterioso. Volevo saperne di più, perché un conto è avere una bella scultura, tutt’altro è trovarsi di fronte a qualcosa che si muove, come un meraviglioso animale».
Passione cresciuta nel tempo. «Per sei anni, tra un film e l’altro, ho gareggiato in una corsa amatoriale chiamata Ferrari Challenge. Non sono stato costante, ma è stato comunque bellissimo», confessa Mann. «Ho capito che serve concentrazione mentale, che mentre si guida bisogna essere dentro ciò che si fa e il resto della vita scompare. Non si può avere nient’altro che preoccupi. Ne ho parlato poi con Lewis Hamilton e ho capito che è così per tutti i piloti. Soprattutto, ho compreso le auto da corsa. Geniale l’intuizione di Ferrari: all’epoca l’auto dell’anno precedente era inutile, tanto che veniva fusa per recuperare il metallo. Il Drake, invece, ebbe l’idea di tenerla, ridipingerla, foderare gli interni con della buona pelle. Qualcuno, magari, l’avrebbe comprata. Capì che quella che per lui era solo un’auto usata, per noi era l’oggetto del desiderio».
Ha senso raccontare Ferrari oggi? «La sua storia è straordinaria, profondamente umana, dalla valenza universale», sottolinea il regista. «E racchiude una forte componente melodrammatica che esplode nel periodo della sua vita che noi raccontiamo». La vicenda si svolge nel 1957: l’Italia è ancora un Paese di contadini e la neonata tv è invasa dai quiz. C’è, però, un uomo capace di andare oltre, di porsi all’avanguardia nella costruzione di auto da corsa, seducenti come moderne sirene. Ferrari è impersonato da Adam Driver. Al di là delle polemiche («Non si capisce perché ruoli di italiani siano affidati ad attori stranieri, lontani dai protagonisti reali, a cominciare dall’accento esotico», ha protestato a Venezia Pierfrancesco Favino. «È un esproprio culturale. Se oggi il cinema mondiale mostra attenzione a ogni specificità, dovrebbe averla anche per la nostra»), il divo americano appare fisicamente credibile coi capelli brizzolati tirati all’indietro, gli occhiali scuri, la pancetta, la stazza da un metro e 90 (Enzo era un omone di uno e 87). Carattere difficile, scontroso quanto intelligente, tanto concreto da essere ossessionato dalle vittorie. «Cosa penso?», amava dire. «Facile: se la domenica vinco, il lunedì vendo». Quel 1957 è l’anno della crisi. Professionale: le vittorie latitano, le vendite di auto sono ridotte al lumicino, c’è lo spettro della bancarotta.

Il seguito sulla rivista.

di Maurizio Turrioni

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