Diciamo basta

Femminicidi e stupri sono sempre di più. Una deriva allarmante, dalla quale scaturisce una domanda: perché? In occasione del 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, la psico-pedagogista Barbara Tamborini prova a dare delle risposte.

Anna Elisa Fontana, 48 anni, di Pantelleria, morta il 25 settembre, dopo due giorni di agonia, bruciata con la benzina dal compagno. La donna si trovava nel reparto di rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo, in condizioni da subito considerate disperate dai medici. Liliana, Maria Rosa, Marisa, Rossella e tante altre: una lunga lista di vittime che è destinata tristemente ad allungarsi. In Italia, dall’inizio del 2023 a fine settembre, sono 80 le donne uccise, 41 delle quali per mano del partner o dell’ex. E non è un record: questo risale al 2002. Ma significa, comunque, quasi un omicidio ogni tre giorni. Senza parlare dei figli, che si aggiungono non di rado al numero delle vittime di genere, uccisi accanto alle madri, magari per vendetta o per disperazione.
Dagli omicidi agli stupri. A Caivano, nella città metropolitana di Napoli, due cuginette di dieci e dodici anni hanno subìto ripetute violenze sessuali, per quasi due mesi, in una casa abbandonata l’estate scorsa. Arrestati nove giovanissimi, due maggiorenni e sette minorenni. Nel branco anche il fidanzatino di una delle due ragazze, che, secondo gli inquirenti, la costringeva ad avere rapporti picchiandola con un bastone.
Sono solo due degli ultimi episodi di violenza nei confronti di donne e bambine comparsi sulle pagine di cronaca dei mesi scorsi.
A pochi giorni dal 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Barbara Tamborini, psico-pedagogista e scrittrice, coautrice, con il marito Alberto Pellai, di numerosi volumi di psicologia, tradotti in molti Paesi, prova a fare luce su femminicidio e violenza di genere.
È impressionante la frequenza con cui si susseguono eventi di violenza estrema sulle donne. Cosa sta succedendo? È un sintomo di una malattia che sta ammorbando le relazioni personali? O che altro?
«Collocherei anzitutto questi eventi all’interno di un fenomeno più generale: è come se oggi avessimo perso la complessità che sta dentro di noi, cioè ciò che ci aiuta a restare solidamente ancorati alla realtà. Ciò ha a che fare con l’eclissi dei freni inibitori e dei meccanismi che ci permettono di riflettere e prendere consapevolezza delle conseguenze di un atto prima di agire. Oggi il vento soffia forte nella direzione del “ciò che sento”, del “ciò che desidero”. O, se vogliamo, è come se la testa avesse fatto un passo indietro rispetto alla pancia. Nei preadolescenti questo è fisiologico: quello che guida l’agire è il sentire, più che il pensare. Crescendo, l’esperienza dovrebbe fortificare il cervello, che aiuta ad avere una visione più complessa, appunto, della realtà. Un adulto, se prova frustrazione o desiderio profondo o rabbia, ha, comunque, una parte razionale che lo indirizza verso strade che non saranno quelle della violenza e dell’aggressività e riuscirà a incanalare queste emozioni altrove, a contenere lo stress».
Cosa conduce oggi verso questa deriva violenta?
«Certamente la cultura e la comunicazione odierne amplificano il sentire e depotenziano la capacità di pensiero. E non lo dico pensando solo al momento in cui scatta l’impulso violento, ma vale per l’intero percorso di relazione che poi sfocia magari in un atto aggressivo. In molte relazioni disfunzionali di coppia che osservo, accade che una serie di frustrazioni non trovi luoghi di elaborazione, ma renda, invece, sempre più incandescente la spinta distruttiva nei confronti dell’altro. E ciò si manifesta in varie forme di relazione e di aggressività: contro chi ti taglia la strada in auto, chi ti risponde male oppure contro il partner che ti lascia. Il femminicidio è un esito eclatante. Potremmo, insomma, parlare di una pericolosa immaturità collettiva, che genera violenza».
Questo spiegherebbe perché gli autori di femminicidi sono spesso adulti. Giusto?
«Già. È come se ci si portasse dietro anche da grandi l’immaturità tipica dell’adolescenza. Semplicemente non si diventa adulti. Si è eccitati da stimoli sempre più forti, stressanti, che mantengono carichi di adrenalina. Ma questa “bomba” non può contare poi su una capacità di elaborazione e su esperienze relazionali che aiutino a disinnescarla, costruendo significati».

Il seguito sulla rivista.

di Alberto Laggia

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