Perché per educare i giovani non basta il pugno di ferro

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Nell’ansia di trovare soluzioni per mettere un freno alla (dilagante?) violenza giovanile, il governo ha avviato una serie di provvedimenti che prevedono inasprimento delle pene, diminuzione dell’età di imputabilità per i minorenni (14 anni), varie misure coercitive. Infine, il coinvolgimento di madri e padri. Se i ragazzi non vengono controllati, se non vanno alla scuola dell’obbligo, ebbene, siano puniti, con sanzioni penali e carcere, anche i genitori. In primis i padri – credo e temo – che, nella psicologia d’antan, spesso coniugata con stereotipi e cliché di vecchi schemi di genere, sono i promotori, nel sistema educativo, di regole e limiti. Se latitano è scontata la loro colpevolezza.
Ma accantoniamo la presunta distinzione di ruoli, che andrebbe argomentata oltre il ristretto spazio concesso da queste poche righe.
Mi soffermo, invece, sull’impostazione governativa, orientata a forza, severità, disciplina, ordine, che sembra più una promozione dei consensi che un vero tentativo di risolvere il problema. Per dirne una: i numeri (si vedano le statistiche) sul carcere e sulla reiterazione dei reati mettono in dubbio l’efficacia del pugno di ferro. Sembrano, in proposito, più valide le misure sociali alternative alla detenzione, che, spesso nel silenzio, creano validi percorsi educativi, evitando il ritorno agli errori (specie in età giovanile).
C’è, a mio avviso, un ulteriore dettaglio trascurato: la fatica di tanti genitori (spesso, è vero, responsabili di un’educazione quanto meno precaria, ma non sempre) nel formare alla legalità. Deboli, isolati, in contesti di degrado, in cui anche il solo richiamo all’onesta dignità soccombe. Sì, i figli, spesso a loro insaputa, non vanno a scuola: punirli mentre magari si spaccano la schiena per guadagnare un modesto salario? Viene il dubbio che le misure risultino discriminatorie (oltre che inefficaci).

di Vittorio Sammarco

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