Amarcord di un genio

Cinque Oscar, di cui uno alla carriera pochi mesi prima che morisse, e un successo di critica e di pubblico che lo ha reso immortale. Ricordo di Federico Fellini a trent’anni dalla morte.

L’anniversario di una morte non è una bella ricorrenza. A meno che non ci faccia capire che il tempo non è stato crudele, che quell’artista vive tuttora attraverso opere, idee, immagini capaci di resistere all’affastellarsi delle mode. Lo abbiamo pensato un paio di mesi fa per Anna Magnani. A maggior ragione viene in mente per i trent’anni dalla scomparsa di Federico Fellini, avvenuta a Roma il 31 ottobre 1993 in seguito alle complicanze post-chirurgiche per un aneurisma dell’aorta addominale. Una fine sofferta, a soli 73 anni. E terrena. Anche troppo per il regista che aveva rivoluzionato il modo di fare cinema, scegliendo di non raccontare la fantasia sotto forma di realtà (come i più fanno ancora oggi), bensì di portare sullo schermo la realtà sotto forma di fantasia. «Io non faccio film per dibattere tesi o sostenere teorie. Faccio un film alla stessa maniera in cui vivo un sogno», disse Fellini in un’intervista che potrebbe oggi essere la sua epigrafe. Per poi aggiungere sornione: «Sono un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo». A proposito di sepoltura, è bene rammentare che, seppure il Teatro 5 di Cinecittà fu rifugio prediletto della sua esistenza d’artista, Federico oggi non riposa a Roma, ma a Rimini, borgo natio da cui idealmente mai si staccò e in cui coltivò i primi sogni, di cinema e di vita. Tanto che quel Comune nostalgico e immaginato è al centro di film come I vitelloni e Amarcord, tra i suoi più belli. Poco prima della fine, provato nella salute, Fellini volle tornarci stabilendosi al Grand Hotel, dove poi le sue condizioni si aggravarono. La sua tomba, con quella dell’amata Giulietta Masina (moglie e compagna di una vita che non seppe sopravvivergli e si spense cinque mesi dopo di lui), si trova oggi sulla sinistra dell’ingresso principale del cimitero monumentale. La si riconosce facilmente per la grande scultura in bronzo, raffigurante la prua di una nave, dedicata a lui e a Giulietta dall’artista Arnaldo Pomodoro.
Strano a dirsi, il primo film che Fellini girò da solo (dopo tante sceneggiature e co-regìe), Lo sceicco bianco con Alberto Sordi, fu un flop. Eppure oggi è un cult. Per fortuna, il lavoro di scrittore teatrale (suoi i monologhi di Aldo Fabrizi) e di autore di varietà radiofonici andava alla grande. Non si abbatté e l’anno dopo fece I vitelloni: Leone d’argento alla Mostra di Venezia del 1953 con i critici in ebollizione. Cominciò lì la trionfale scalata verso la celebrità.

di Maurizio Turrioni

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