Meglio coltivare il dubbio o seminare certezze?
Posto che ormai le parole si avvicinano alla fluidità dei liquidi (tanta è l’abilità di molti di dire ciò che vogliono usando termini a casaccio); posto che le autorità (paterna in primis) e un po’ tutte quelle riconosciute e istituzionalizzate non godono (eufemismo) dell’antica stima, ma, anzi, sono non solo contestate, bensì trascurate, inascoltate, misconosciute; posto, infine, che i tempi mostrano in maniera dirompente l’estrema difficoltà di governare con giudizio le trasformazioni in atto (guerre, pandemie, cambiamenti climatici, interconnessioni sociali o tecnologiche); insomma, posto tutto questo, da padre io mi chiedo: è meglio coltivare il dubbio o seminare certezze? In sostanza (traducendo il quesito filosofico in un interrogativo da manuale di sopravvivenza) è meglio, con i giovani, parlare di come piano piano, a fatica, ma con insistenza e determinazione, ragionare sulle piccole o grandi verità in cui ci imbattiamo oppure, al contrario, provare a fissare i puntelli, i basamenti del proprio modello di vita su alcune indistruttibili e incorruttibili certezze (siano esse valoriali, cognitive, emotive, sociali)?
Il primo sistema allena a cavarsela con gli imprevisti, con le informazioni (piccole, medie, grandi, è lo stesso) acquisite e date per scontate che, se non vengono accompagnate da un sano dubbio esplorativo, rischiano di fare danni. Il secondo sistema, cioè puntare sulle poche certezze che non sono state (ancora?) scalfite dalla precarietà dei tempi moderni, rende un po’ più facile il confronto con il mondo che ci circonda.
Il seguito sulla rivista.
di Vittorio Sammarco