Maestro di dialogo
Critico sia nei confronti degli estremisti islamici di Gaza che degli ultraortodossi ebrei. L’eredità di Abraham Yehoshua, scrittore israeliano e paladino di pace, morto un anno fa.
Il 14 giugno di un anno fa ci ha lasciati Abraham Yehoshua, definito dal New York Times il «nuovo Faulkner», lo scrittore israeliano più noto al mondo, le cui opere sono state tradotte in 22 lingue. Molto amato in Italia, ha ricevuto diversi premi, come il Grinzane Cavour, il Flaiano, il Viareggio alla carriera. È soprattutto grazie ai suoi romanzi che i lettori italiani hanno scoperto la letteratura israeliana.
Straordinariamente moderno nelle tematiche affrontate – i comportamenti umani, l’individuo e il suo rapporto con la società, la memoria –, è considerato un modello anche per lo stile, capace di mutare e di evolversi nel corso degli anni, e per la varietà di forme letterarie in cui si è cimentato: racconti, romanzi, opere teatrali, saggi. Yehoshua viene considerato anche il simbolo della complessità ebraica: sentimenti amorosi, religione e fede, ideologia politica e routine quotidiana costituiscono un unicum nei suoi libri, il tutto contestualizzato nella dimensione storica dello Stato d’Israele.
Nato nel 1936 in una famiglia d’origine sefardita colta e liberale, Yehoshua si laurea in Letteratura ebraica e filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme. Viene chiamato come professore nelle Università di Parigi, Harvard, Princeton, per poi stabilirsi definitivamente in quella di Haifa. Dopo aver svolto il periodo di leva obbligatoria, comincia a pubblicare diventando un esponente della New Wave israeliana. Il suo primo libro, del 1962, è la raccolta di novelle di tono surrealista La morte del vecchio. Nell’opera successiva (Davanti alle foreste, 1968) inizia a manifestarsi l’istanza di un’adesione alla realtà causata dallo scoppio della guerra dei Sei giorni e mai più abbandonata, come dimostra L’amante, forse il romanzo più celebre, una ricostruzione a più voci delle vicende di una famiglia israeliana all’epoca della guerra del Kippur. Comincia qui ad affrontare un tema che diventerà una vera e propria costante: i rapporti familiari come luogo d’incontro intergenerazionale. In particolare, l’amore coniugale è oggetto di analisi, in quanto non fondato su un legame di sangue e perciò tale da dover essere continuamente rimesso in discussione, giorno per giorno, nelle situazioni più diverse.
Negli anni Ottanta Yehoshua raggiunge la piena maturità artistica con Un divorzio tardivo (1982) e Le cinque stagioni (1987). Nel primo libro condensa la storia di una famiglia in una sola giornata attraverso i monologhi interiori di nove parenti. Nel secondo traspone l’allegoria del conflitto Stato-individuo attraverso la maniacale interrogazione su sé stesso del protagonista, un «buon ebreo sefardita». Ma è Il signor Mani che lo scrittore considera il suo miglior lavoro e che definisce «ineguagliabile», una prova di virtuosismo stilistico nell’elaborare un monologo interiore in forma di dialogo, che tratta il tema del confronto e del contrasto tra Oriente e Occidente. «L’idea fissa di Josef Mani è che i palestinesi siano degli ebrei rimasti in quella terra, successivamente convertitisi all’Islam. Quindi la sua ossessione è portarli a ricordare, con ogni mezzo, la loro condizione originaria». È questo un tema al centro del pensiero e dell’opera di Yehoshua. I suoi personaggi sperimentano la difficoltà di costruire relazioni che non si lascino incasellare nel pregiudizio o nell’intolleranza.
Il seguito sulla rivista.
di Marta Perrini