Donne, non bastano le parole

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Scrivo questo articolo proprio l’8 marzo, piacevolmente immerso in un fiume di parole che ricordano «la battaglia delle donne», «l’ingiusta sperequazione di mansioni, retribuzioni e condizioni di vita», ma anche rivendicazioni in corso, molestie, femminicidi, maltrattamenti, «mancati riconoscimenti», umiliazioni e perorazioni. Soprattutto per le donne che vivono in Paesi a dominazione maschile, tirannici, oppressivi, che nascondono i soprusi dietro inaccettabili e improponibili paraventi etico-religiosi.
Ma voi lo leggerete a maggio. E allora? Fuori tempo, rispetto alla ricorrenza? No, appunto: voglio celebrarla appositamente quando se ne parla di meno. Quando, passata la festa, come dice un noto proverbio, «gabbato…». E no, non ci sto.
Lo scrivo adesso (nel clima di queste ore) perché qualcuno mi ha fatto notare (uno dei pochi che mi leggono costantemente) che, nonostante la fotina con le figlie in testa al titolo, poi, quando si tratta di scrivere e raccontare temi e conversazioni, sto lì, quasi sempre, a parlare del figlio maschio. Sarà vero? Non ci faccio caso. Ma questa simpatica reprimenda l’associo alle velate, ma pungenti rimostranze che non poche volte le mie figlie avanzano: ossia che, nonostante l’infarinatura di progressista avanzato, gli studi, le parole, la postura (nonostante anche ben dieci anni di rubrica rivolta alle donne in questa rivista), ebbene, sarei pur sempre un uomo-barra-padre di vecchio stampo. Non proprio maschilista, d’accordo, ma sicuramente ancora “viziato” da vecchi stereotipi prettamente italiani (peggio, meridionali) che non si schiodano e che, gratta gratta, emergono al momento giusto.

Il seguito sulla rivista.

di Vittorio Sammarco

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