Cannes 2023 e il “nostro” palmarès

Il gioco, sempre lo stesso, funziona. Prima procacciarsi uno degli ambiti accrediti per il Festival di Cannes. Poi rimbalzare per giorni sulla Croisette da uno schermo all’altro, come biglie impazzite, per vedere il maggior numero di film possibile. Alla fine, esausti e tesi come corde di violino, attendere che la giuria di turno annunci il Palmarès per sparare a zero. Un po’ perché, se non è la rara annata del capolavoro assoluto, i giudizi artistici sulle pellicole in concorso restano comunque soggettivi. Un po’ perché si fa il tifo per i cineasti di casa propria. Ma soprattutto perché ci si fa notare di più con una critica tagliente che con un elogio benevolo. Detto questo, bisogna riconoscere che un problema però esiste se negli ultimi anni i film premiati con la Palma d’oro hanno fatto storcere la bocca a gran parte di critici e spettatori (nel 2017 The Square e nel 2022 Triangle of Sadness, entrambi dello svedese Ruben Ostlund, entrambi fragili e piacioni) se non addirittura sollevato cori di proteste (nel 2021 Titane della francese Julia Ducournau). Oltre a dover prendere atto di un certo rigurgito sciovinista a Cannes con ben quattro trionfi del cinema francese nel Palmarès negli ultimi dieci anni, dei quali uno solo davvero meritato (nel 2015 col bellissimo e teso Dheepan di Jacques Audiard).

La Palma d’oro del 76° Festival di Cannes appena assegnata ad Anatomie d’une chute della francese Justine Triet conferma i malumori. Non tanto perché il film sia brutto: un insolito legal movie su una donna messa sotto accusa per la morte del marito, a seguito di una caduta (accidentale o procurata?) in uno chalet di montagna. Il dubbio da dirimere diventa l’occasione per sviscerare le pieghe amare di un rapporto di coppia in via di dissoluzione. Tanto che la storia vira dallo stile Perry Mason a uno più introverso alla Ingmar Bergman di Scene da un matrimonio (paragone irriverente). Che dire? Curioso. Su due ore e mezza di durata però ben due si svolgono nell’aula del tribunale. Troppo. Cinematograficamente parlando, quest’anno sulla Croisette si è visto di meglio. Sarebbe bastato assegnargli il premio per la miglior regia.

Considerazione che vale anche per l’altro premio importante: il Grand Prix a The zone of interest del britannico Jonathan Glazer (spiazzante racconto della quotidianità di una famiglia che vive accanto al campo di concentramento di Auschwitz, tratto dal libro omonimo di Martin Amis, scomparso pochi giorni fa). Per un meritato e doveroso omaggio, sarebbe bastato il premio per la miglior sceneggiatura. D’accordo soltanto sul Prix du Jury, vale a dire la medaglia di bronzo della rassegna, assegnato a Les feuilles mortes del finlandese Aki Kaurismaki: coerente col suo stile di sempre, surreale, malinconico, colorato come un quadro di Rothko o di Hopper, denso di ironia e di amore per il cinema. Soprattutto, dalla parte degli ultimi con un filo di poesia e di speranza. Film bellissimo. Siccome non è giusto solo demolire, diciamo che il cinema italiano è rimasto giustamente a bocca asciutta malgrado la nutrita presenza: Moretti, Bellocchio e Alice Rohrwacher non hanno convinto, chi per un verso chi per l’altro.

Ecco invece i premi che avremmo assegnato (e non solo da parte di chi scrive ma pure di un nutrito plotone di critici presenti sulla Croisette). Grand Prix per The Old Oak del resiliente Ken Loach, a quasi 87 anni tornato sulla Croisette per offrire l’ennesimo sguardo sulla gente che soffre e fatica a tirare avanti in una Inghilterra sempre più chiusa e in crisi. Ma con un bruciante squarcio di attualità, perché il film racconta della contrastata solidarietà tra proletari inglesi e un gruppo di rifugiati siriani sbattuti dal governo in una povera cittadina spersa nel profondo nord. Loach avrebbe meritato il massimo alloro, ma sarebbe stato il primo regista a ottenerlo per tre volte. Meglio evitare sospetti e premature celebrazioni: quindi, medaglia d’argento.

Palma d’oro del cuore a Perfect Days del tedesco Wim Wenders, capace a 77 anni di tornare alla freschezza d’ispirazione dei suoi titoli migliori (Lo stato delle cose, Paris Texas, Il cielo sopra Berlino). Davanti alla sua cinepresa, l’esistenza ordinata di un uomo di mezza età, certo non abbiente e però colto e intelligente, la cui quotidianità si svolge in giro per Tokio come addetto alle pulizie dei bagni pubblici. Lavoro umile svolto con la dignità di un artista. Gesti, sguardi, azioni che si ripetono giorno dopo giorno con piccole varianti o sconvolgenti imprevisti. Per far capire che dietro quell’apparente umile vita c’è ben altro. Che il senso delle cose può e deve essere diverso da quello plastificato di una modernità imperante. Wenders raggiunge reali momenti di grazia mercè la straordinaria interpretazione del giapponese Koji Yakusho, premiato difatti come miglior attore sulla Croisette: incredulo e felice lui, commosso il regista che sulla sua faccia ha saputo costruire tutto il film, una vita intera. Wenders avrebbe meritato di salire sul palco col suo attore per alzare la Palma d’oro.

Onore comunque al Festival che, fuori concorso e nelle tante sezioni parallele, ha saputo offrire delle vere perle agli addetti ai lavori. Due su tutte. Il delicato cartone animato Robot Dreams dello spagnolo Pablo Berger, che supplisce alle parole con la scelta azzeccatissima di brani musicali per riassumere una morale tanto moderna quanto insolita per un cartoon. E il folgorante Strange way of life di Pedro Almodòvar, primo western del regista culto del cinema spagnolo. Eccezionale l’idea di partenza, quel ritrovarsi dopo vent’anni su sponde opposte di due pistoleri dal passato intenso quanto compromettente (interpretati magistralmente da Ethan Hawke e Pablo Pascal, attore sulla cresta dell’onda grazie alle serie Narcos e The Mandalorian). Splendide le immagini. Coraggiosa la scelta di limitarsi a un corto di 31 minuti, senza star lì a sbrodolarsi addosso (per cui il film non ha potuto essere in concorso). Ha fatto bene Almodòvar a fregarsene della gara, visto che lo spettatore finisce per alzarsi dalla poltrona contro voglia, desideroso di sapere come andrà a finire quella strana storia. Non servono due ore e mezza per fare grande cinema… Ultima considerazione sul contestato Palmarès. I premi assegnati dalla giuria, presieduta dallo svedese Ruben Ostlund e di cui era membro votante anche la discussa Julia Ducournau, sanno tanto di riconoscenza verso la perfetta organizzazione del primo festival davvero gestito dalla neo presidente Iris Knobloch (per vent’anni capo della Warner Bros Europe): ritorno in grande spolvero degli americani sulla Croisette (con Palma d’oro alla carriera per Michael Douglas e per Harrison Ford, più il galà in pompa magna per Martin Scorsese e i suoi attori Di Caprio e De Niro) e successiva consacrazione del cinema francese, ben al di là dei suoi meriti.

Le parole d’ordine sulla Croisette? Inclusione, stranezza, omosessualità, ecologia, biodiversità, novità anche a discapito della qualità. Piuttosto che premiare chi è già affermato, osare anche il verdetto scandaloso. Soprattutto blandire le donne, il loro mee too e tutto ciò che ne fa, anche giustamente, paladine oggi della protesta sociale. Largo perciò alle registe in concorso (ben sette) e Palma d’oro a una di loro (è la terza volta che accade). Per carità, tutto giusto in linea di principio. Tuttavia, non è sufficiente essere donna per girare un bel film. Quando l’essere controcorrente diventa moda imperante, c’è il rischio che l’anticonformismo sappia tanto di conformismo.

Maurizio Turrioni                              

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