Madri per scelta 

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Essere mamme richiede fatica e dedizione. Che le donne non sono più disposte ad affrontare da sole, con sacrifici nella vita personale, lavorativa, sociale. Per questo ogni decisione va rispettata, emancipandosi da ruoli che vorrebbero tenerci ancorati al passato. 

Ogni anno ci ritroviamo a registrare l’ennesimo record, ma negativo. Da qualche settimana sono usciti gli ultimi dati dell’Istat, secondo i quali nel 2022 in Italia sono venuti al mondo 392.598 bambini, un calo dell’1,9 per cento rispetto al 2021: contiamo 5,4 anziani per ogni infante. A livello europeo ci collochiamo tra i fanalini di coda, uno dei Paesi con il fertility gap più ampio insieme a Grecia e Spagna. 
Nel giro di una generazione o poco più, le donne hanno radicalmente modificato il loro stile di vita e i loro desideri e, come spesso capita, la politica non è stata al passo con la realtà. Secondo il Censis, le ragazze si laureano più dei loro coetanei maschi e scelgono anche in misura maggiore una specializzazione come master o dottorato. Peccato che questi dati vadano poi a scontrarsi con quelli dell’occupazione femminile, che nel nostro Paese resta tra le più basse d’Europa. Per chi ha avuto il merito e la fortuna di trovare un impiego e l’ardire di procreare, la realtà è ancora peggiore: ogni anno più di duemila donne si dimettono per la difficoltà di conciliare famiglia e professione, quasi una su cinque smette di lavorare dopo la nascita di un figlio. Per favorire l’occupazione rosa, occorre ridistribuire il carico di cura e al momento in Italia non è possibile farlo per l’incredibile disparità dei congedi in vigore. Se la neo-mamma ha diritto a cinque mesi di maternità obbligatoria, per i papà si parla di dieci giorni. Esistono poi i mesi di congedo parentale: sei se fruiti da uno dei due, che possono diventare undici se entrambi ne approfittano. Dal momento che per il genitore che utilizza il congedo lo stipendio è pari al 30 per cento, la scelta è spesso obbligata e ricade su chi ha la retribuzione inferiore, cioè la donna. Per la generazione che ha oggi tra i 25 e i 40 anni i ruoli genitoriali sono considerati paritari, per cui servirebbe innovare la politica dei congedi e renderla affine a quella dei Paesi nordici, in cui sono più lunghi, meglio pagati e obbligatori per entrambi i partner.
A cambiare è anche il contesto in cui le donne si trovano a vivere. L’inurbamento massiccio dell’ultimo sessantennio ha reso sempre più irrealizzabile il detto «per crescere un figlio serve un villaggio». Dinamiche di condivisione della vita familiare non esistono in una realtà come quella italiana in cui il 46 per cento dei lavoratori dichiara di contare almeno 6-10 ore di lavoro straordinario a settimana non retribuite, la mobilità porta a essere spesso in trasferta o a dover cambiare città e i posti negli asili nido sono insufficienti (riesce ad accedere mediamente il 33 per cento dei bambini). Considerate queste questioni, se ne desume che il welfare dei piccoli si basi forse più di un tempo sulle figure insostituibili dei nonni. E se si vive lontani dalle famiglie di origine, chi può aiutare nella gestione del bebè o anche solo nella condivisione delle emozioni che il ruolo di neo-genitore comporta? 

Il seguito sulla rivista.

di Marta Perrini

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