Lo scrittore che creò la lingua

Alessandro Manzoni, a 150 anni dalla morte, continua a darci parole per il nostro quotidiano. E a raccontare, attraverso personaggi e situazioni, l’Italia di oggi.

Che i Promessi sposi “parlino” e vivano tuttora nelle nostre parole quotidiane (non solo scritte e letterarie), a 150 anni dalla morte del loro autore, è un fatto, retaggio di una lunga storia che incrocia quella del romanzo, quella dello scritto e quella del Paese. Attentissimo studioso, anche teorico, della lingua, Alessandro Manzoni lo è sempre stato, ma il tema gli diviene urgente quando comincia a confrontarsi con l’idea del “romanzo”, genere che non esiste nella tradizione narrativa italiana fino a quel momento, se non per esperienze secentesche note solo agli studiosi. I modelli cui il Manzoni si rifà sono altrove: in Inghilterra, in Francia, ma in fatto di lingua ovviamente non soccorrono.
Da gran lombardo, Manzoni parla milanese e francese. Solo quando scrive si affida alla lingua codificata nella letteratura: l’italiano – fiorentino nella matrice – disceso dalla tradizione scritta del volgare di Dante, Petrarca e Boccaccio. Una lingua di sola cultura, elevata, sclerotizzata dalla mancanza d’uso, che Manzoni stesso definirà «quasi morta», incapace di rendere la vitalità del parlato: un italiano che non esiste in natura ma solo nei libri. Impensabile che parlino così nei dialoghi i protagonisti popolani del romanzo che prende forma nella sua testa: un po’ perché non sarebbero credibili, un po’ perché è una lingua cui mancano le parole della quotidianità. A quel punto è il bivio: scrivere in milanese e confinare l’opera al pubblico lombardo o “inventarsi” una soluzione.
La lingua letteraria cui all’inizio si affida – tra il Fermo e Lucia rimasto manoscritto (1821-1823) e la prima edizione dei Promessi sposi (1827) – , con inserti di origine milanese nelle parti in cui le parole della letteratura non soccorrono, soddisfa lo scrittore così poco, da indurlo, in quella che Angelo Stella, presidente del Centro nazionale degli studi manzoniani, definisce  una “postfazione” che di fatto seppellisce il Fermo e Lucia, a una spietata autocritica: «Un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall’una o dall’altra di esse […]. Non si potrà forse nemmeno dire dove specialmente pecchi questa lingua […] e non si può dire se non che è cattiva lingua». 
Manzoni si rende conto che la spontaneità del parlato di Perpetua, Agnese, Renzo e Lucia va cercata altrove: concepisce così l’idea del fiorentino “vivo” in uso sulle rive dell’Arno. La riscrittura che porta all’edizione del 1827 è un lavoro a tavolino, compiuto sui vocabolari e con il “ripasso” di tutta la tradizione toscana della narrativa in volgare (Boccaccio, il Novellino, i poemi cavallereschi in ottave…), ma ancora non basta. Manca qualcosa. È l’11 giugno del 1827 quando lo scrittore annuncia per lettera all’amico Claude Fauriel che la famiglia Manzoni è in partenza alla volta della Toscana: i tempi della «risciacquatura in Arno» sono maturi. 

di Elisa Chiari

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