Don Mario Pasini per le vie del mondo

Il sacerdote guardava ben oltre il contesto locale. Celebri i suoi viaggi missionari in Kenya, Uganda, India, dove incontrò anche Madre Teresa di Calcutta. Una vita spesa al fianco dei più bisognosi. 

Era uno di noi. Di noi giovani disposti a tutto per conquistare un titolo e una firma.Di noi non più giovani impegnati a dare continuità a tutto ciò che lui aveva pensato e messo a nostra disposizione. Di noi diventati anziani, ma ancora ancorati alle mille lezioni che ci aveva donato. Di chiunque volesse rendere migliore la città dell’uomo. Degli innamorati della buona politica. Di coloro che, incamminandosi sulle strade della missione, lasciavano il certo per l’incerto mettendo in conto fatiche, ma anche soddisfazioni e speranze di bene da distribuire a piene mani dove più difficile era vivere e sperare in giorni migliori. Di chi era costretto a misurarsi con la malattia avendo la necessaria forza per non fermarsi. Sì, quel don Mario Pasini, oltre che uno di noi, era un prete con addosso la “presunzione” di sbriciolare il Vangelo e di condividerlo anche con l’ultimo dei suoi compagni di avventura.
Avevo quindici anni quando mi accolse in redazione, prima in quella di La Voce del Popolo e poi in quella della rivista Madre, che a quei tempi rilanciava la sua missione di mensile per la famiglia. Da lui ho appreso il mestiere di giornalista, anche la buona abitudine di raccontare cercando di farsi comprendere dall’ultimo piuttosto che dal primo della classe e via via tutto ciò che serviva per essere dalla parte del lettore. Per quarantadue anni, da vicino e da lontano, sono stato un suo testimone e amico, entusiasta dei progetti che inanellava, sempre disposto a seguirlo, pronto a prendere bozze, menabò, macchina per scrivere per ricominciare ogni volta una storia nuova. 
Io nascevo e lui veniva consacrato sacerdote. Vent’anni più in là, gli chiesi di raccontarmi i suoi primi passi da prete. Mi disse semplicemente che semmai sarebbe toccato ai posteri raccontarli. «Prenotati», aggiunse, «e magari toccherà proprio a te raccontare quel che di misero, o di accettabile, o addirittura di grande è rimasto, se, fatti i conti con il passato, restassero spiccioli degni di essere considerati una lodevole eredità». Però, mi confidò che negli anni in cui frequentava la Pontificia Università Gregoriana di Roma condivise collegio e studi con un gruppo di preti tra cui figuravano il bresciano don Francesco Vergine e il polacco don Karol Wojtyla. Mi disse anche che, con don Francesco, aveva convinto l’amico polacco, che ovviamente nessuno immaginava fosse destinato a diventare Papa, ad accettare di trascorrere alcuni giorni di vacanza in terra bresciana, a Seniga, dove c’era la possibilità di sedersi ogni giorno a tavola e di stare in santissima pace. Di quella amicizia e dei giorni passati a Seniga papa Giovanni Paolo II non fece mistero. Anzi, raccontò pubblicamente l’esperienza riservando ai compagni d’avventura, come disse don Mario a noi che gli stavamo vicino, «gesti, accoglienza e tenerezze degne di un Papa». 

Il seguito sulla rivista.

di Luciano Costa

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