Il dolore, scuola di vita
La sofferenza altro non è che la coscienza del limite, della finitudine umana. Per affrontarla l’unica risorsa è la spiritualità, che aiuta a dare un significato all’ignoto, alla paura, alla morte.
La società capitalista alla ricerca del benessere, i giovani che non sono più disposti a faticare, la cultura edonista che insegna a fuggire dal dolore, il mito solipsista che spinge a pensare solo a sé.
Due anni fa, Byung-Chul Han, uno tra i più grandi filosofi contemporanei, ha riflettuto sul tema in La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite (Einaudi, 2021). Secondo lui, la paura di soffrire è così pervasiva da averci spinto a rinunciare persino alla libertà pur di non doverla affrontare, con il rischio di chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia. Dal mito del dolore alla sua negazione, però, il passo non è così breve come può sembrare.
«Dal punto di vista psicologico il dolore è la risposta a una condizione non desiderata e non desiderabile, come una malattia, l’interruzione di una relazione importante o la morte di una persona cara», riflette Ines Testoni, psicoterapeuta, filosofa, docente di psicologia all’Università di Padova. «In passato avevamo pochissimi strumenti per prevenire il dolore rispetto a quelli che possediamo attualmente: la medicina ha raddoppiato la durata della nostra esistenza dal Medioevo a oggi, la salute è considerata un valore da tutelare anche con comportamenti virtuosi, la qualità della vita è migliorata. Oltre a ciò, un altro fattore che ci rende meno capaci di gestire il dolore è l’alta percentuale di successo delle cure. La soluzione non sta ovviamente nel peggiorare la nostra condizione, né nel tornare indietro nella storia, quando la condizione di sventura veniva affrontata con la convinzione che il dolore fosse salvifico. La logica della finitudine elaborata dal pensiero greco e da quello ebraico e sviluppata poi nelle religioni abramitiche considerava la sofferenza l’espiazione della colpa di essere nati. Il limite, per quanto doloroso, ricordava la propria condizione di esseri finiti, limitati appunto, differenti da Dio. Attualmente questi concetti sono impopolari e li hanno abbandonati anche le religioni, che cercano di partecipare alla costruzione del benessere collettivo come portatrici di significato».
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di Marta Perrini