Quando il lavoro è dis-pari  

Le donne guadagnano meno degli uomini, fanno meno carriera, percepiscono pensioni inferiori. Per invertire la rotta serve un cambiamento di mentalità, che finalmente le emancipi dal ruolo di mogli e di madri. 

Due impiegati, under 35, un uomo e una donna. Sono seduti in ufficio, uno a fianco all’altro, hanno le stesse mansioni e il medesimo livello di istruzione. A fine mese, la giovane donna guadagna meno del giovane uomo collega di scrivania. E se si parla di lavoro saltuario o precario o di immigrate il divario cresce ancor più a scapito delle lavoratrici. «In Italia le donne di età inferiore ai 35 anni sono le più svantaggiate: oltre il 50 per cento di loro guadagna al massimo 15 mila euro l’anno, contro il 32,5 per cento dei maschi», spiega Chiara Volpato, responsabile nazionale del Coordinamento donne Acli. 
Nel nostro Paese lavoro povero significa lavoro femminile, perché esiste una condizione di disparità tra uomini e donne nel settore lavorativo ed economico. La certezza giunge dall’indagine Lavorare dis-pari, ricerca su disparità salariale e di genere, realizzata dall’Area lavoro delle Acli nazionali in collaborazione con il Coordinamento donne Acli. I numeri parlano chiaro: tra i lavoratori saltuari il 68 per cento delle donne ha un reddito annuo complessivo fino a 15 mila euro (contro il 51,5 per cento degli uomini) e tra i lavoratori stabili il reddito è sotto i 15 mila euro annui per il 24,6 per cento delle lavoratrici contro il 7,8 per cento degli uomini. Questo a parità di ruolo e di mansione. 
Come è possibile? «La donna ha troppi altri compiti nella vita. Per esempio, è quasi sempre femminile la gestione della legge 104, che permette giorni di assenza dal lavoro per l’accudimento di genitori anziani o figli con disabilità, così come è femminile la presenza con i figli al pomeriggio. In questa situazione, le lavoratrici riescono a effettuare meno straordinari e spesso a raggiungere meno obiettivi con premi. Ciò si concretizza a fine mese nella busta paga, oltre che nella difficile possibilità di fare carriera», spiega Volpato. In più se la lavoratrice è mamma nella metà dei casi dopo il secondo figlio lascia il lavoro. Sociologi ed economisti sottolineano come nel nostro Paese, infatti, lo stipendio della donna sia ancora considerato la seconda entrata in famiglia, quindi quello “sacrificabile” in caso di necessità.

Il seguito sulla rivista.

di Cristina Colli 

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