Se la memoria diventa violenza
Mi sono sempre chiesta, di fronte alle grandi tragedie della storia, quale fosse il modo giusto di ricordare. Fare memoria è doveroso. Ce lo diceva, con parole di fuoco, anche Primo Levi. La sua, di ritorno dai campi di concentramento, era quasi una maledizione nei confronti di chi non avesse ricordato «che questo è stato». Ripetetelo ai vostri figli, scriveva, «o vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi». Bisogna andare alla memoria per capire come sia stato possibile, per trovare le radici del male e spezzarle, per non ripetere gli stessi errori. Ma con un’accortezza: quella del rispetto di chi, quelle tragedie, le ha vissute sulla propria pelle. I sopravvissuti all’olocausto non hanno cominciato a parlare subito. Ci sono voluti mesi, a volte anni, perché raccontassero. Troppo forte il dolore, troppo indicibile il male subito. E allora ci vuole equilibrio per affrontare la storia, narrarla alle nuove generazioni senza far rivivere alle vittime il sopruso patito, senza riaprire ferite.
Il seguito sulla rivista.
di Annachiara Valle