Una intellettuale nella mischia

Grande protagonista del panorama culturale italiano, Natalia Ginzburg è stata narratrice, saggista, commediografa e parlamentare. A trent’anni dalla scomparsa, ricordiamo la sua voce libera e scomoda.

«Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», scriveva Lev Tolstoj all’inizio del suo capolavoro Anna Karenina. E quando si parla di famiglia e letteratura non può non venire in mente Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, il racconto del mènage della famiglia Levi nella Torino degli anni dal 1920 al 1950. Protagoniste sono la memoria e la voce dell’autrice, che narra le sue avventure e quelle della sorella e dei fratelli con voce nitida e schietta, perché «una donna deve scrivere come una donna, però con le qualità di un uomo».
Si tratta d’altronde di una famiglia tutt’altro che convenzionale: il padre è un noto scienziato, ebreo e antifascista, professore di tre premi Nobel (Salvatore Luria, Renato Dulbecco, Rita Levi Montalcini), mentre la madre, cattolica e socialista, è la sorella maggiore di Drusilla Tanzi, soprannominata Mosca per via degli spessi occhiali che portava a causa di una forte miopia, moglie di Eugenio Montale. Paola, la sorella di Natalia, sposerà Adriano Olivetti, suo fratello Mario la figlia di Amedeo Modigliani. Degli altri due fratelli uno fonderà il Censis e l’altro diventerà segretario della Cgil.
Dalla sua abitazione Natalia vede passare Filippo Turati e Margherita Sarfatti e conosce gli amici dei fratelli, Cesare Pavese e Leone Ginzburg, tra i fondatori della casa editrice Einaudi. Nel 1938 sposa quest’ultimo, che due anni dopo, per la sua attività antifascista, viene mandato al confino in un piccolo paese dell’Abruzzo, seguito dalla moglie e dai tre figli. Nel 1943 viene arrestato e poi ucciso nel carcere di Regina Coeli. Natalia è sola e in difficoltà economica. Lavora per Einaudi come redattrice e traduttrice (de La ricerca del tempo perduto di Proust), poi si dedica alla sua produzione letteraria. Dopo il primo romanzo, La strada che va in città, uscito nel 1942 con uno pseudonimo per non rivelare la sua origine ebraica, nel 1947 vince il premio Tempo con È stato così.

Il resto sulla rivista.

di Marta Perrini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *