Il ricordo dopo di me
Leggo spesso i racconti dei cosiddetti figli d’arte. I Tognazzi, i Gassman, i De Andrè, il Jannacci, solo per dirne alcuni, loro stessi bravissimi artisti in diversi settori, ricordano, intervistati, la figura del padre e i momenti vissuti con lui.
I nomi citati (ma non solo loro) hanno giganti alle spalle, figure professionali di immensa e riconosciuta bravura, che nei loro ricordi, a volte tormentati, emergono, con più o meno celata nostalgia, come padri spesso assenti, con rapporti complicati con mogli e compagne. Situazioni familiari controverse, che lasciano in alcuni casi ferite, incomprensioni, lacrime o strappi ricuciti magari dopo molti anni.
Eppure, il gigante è “disegnato” dai figli (e non solo da loro, ma da tutti coloro che, da osservatori, ne hanno ammirato le qualità) come un papà straordinario. Ricchissimo di idee, esperienze e genialità.
E mi fa un po’ invidia. Nella mia assoluta normalità, lungi dal mettermi in competizione con queste icone della musica o del cinema (ma ci sono anche nella narrativa o nello sport), la mia personale e intima gelosia nasce dal sentire come questi racconti rievochino non solo un’idea, ma una vera e propria presenza. Viva e reale.
Nelle interviste più insistenti, in risposta alle domande, i figli d’arte sembrano rivivere i giorni con i loro padri, le feste, le risate, le lacrime e i regali condivisi. Emozioni e incanti. Insomma, sentono di averli in qualche modo ancora con loro.
Il seguito sulla rivista.
di Vittorio Sammarco