Donnevelate

La prescrizione di coprirsi il capo appartiene non solo al mondo islamico, ma anche alla storia dell’Occidente: nel Medioevo il velo era, infatti, sia un simbolo di pudore, sia un accessorio alla moda.

A parlare di donne e religione si finisce spesso col semplificare un universo complesso. Da un lato l’Occidente secolarizzato, dall’altro l’Oriente, in cui regnano il velo, la poligamia, i rapporti di potere. «Si tratta di un tema paradossale», afferma Maria Giuseppina Muzzarelli, «di cui si può narrare una storia molto drammatica, così come un racconto a tinte meno fosche».
Già professoressa di Storia medievale e di Storia e patrimonio culturale della moda all’Università di Bologna, la docente è incappata in questo argomento quasi incidentalmente, mentre approfondiva le predicazioni di epoca medievale su lusso e vanità: «All’interno dei sermoni ricorreva l’indicazione che in ogni luogo sacro le donne dovevano tagliarsi le code, cioè gli strascichi dei vestiti, e tenere il capo coperto. Inutile specificare che nessuna tagliava gli abiti, ma ci si limitava a nascondere le code per non sacrificare i tessuti. Per quanto riguarda la testa, si usavano strutture metalliche sulle quali venivano posati dei drappeggi leggeri e volteggianti con effetti straordinari». Il velo apre una galassia, che va oltre Oriente e Occidente. Spesso viene correlato al mondo musulmano, non lo si considera parte della nostra storia, eppure con un piccolo sforzo quasi tutti possiamo ricordare le nostre nonne che indossavano copricapi: una signora per bene non esce senza cappello.
«Si chiama velo un oggetto che deve coprire, ma se c’è una cosa che non fa è proprio questa, non è un drappo», riflette Muzzarelli. «Anche le più severe coperture del mondo islamico vengono comunemente chiamate velature. Un oggetto così leggero è stato caricato di significati molto pesanti, un oggetto che reca grazia ha assunto la valenza di nascondimento quando invece ha in sé, proprio per sua natura, la caratteristica di far intravedere, di decorare».

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di Marta Perrini

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