Dall’intifada alla musica

Ramzi Aburedwan, 44 anni, palestinese, era stato immortalato mentre da bambino scagliava una pietra contro i soldati israeliani. Una foto destinata a diventare il simbolo di uno scontro che continua anche oggi. Ora quel ragazzino ha trovato nelle note un antidoto ai conflitti. E qui racconta la sua storia.

Ramzi Aburedwan nel 1987 aveva otto anni, viveva in un campo profughi palestinese e non aveva idea di come sarebbe stata la sua vita futura. Un giorno, come tanti suoi coetanei, quel bambino prese una pietra e la scagliò nell’aria, in direzione dei soldati israeliani. Nei territori palestinesi erano giorni di rivolta contro l’occupazione. L’ondata di proteste che investì Cisgiordania e Gaza (allora non ancora in mano a Hamas) era stata scatenata nel dicembre di quell’anno da un incidente d’auto.
Un minibus con a bordo alcuni operai palestinesi si scontrò frontalmente con un blindato dei militari israeliani. La morte dei pendolari fu il detonatore di una protesta che venne subito ribattezzata intifada, parola che in arabo significa «sollevamento, scuotimento». Una sollevazione che, al di là dell’evento più o meno casuale, aveva radici profonde. A cominciare dalla condizione di povertà e subalternità della popolazione palestinese nei territori occupati da Israele dopo la guerra del 1967.
La rivolta iniziò dal campo profughi di Jabalia, dove viveva la maggioranza delle vittime. Poi in tutta la Striscia di Gaza. In serata l’intera Cisgiordania era in fiamme.
Dalle pietre alle sette note
Quando anche Ramzi scagliò la sua pietra, che non poteva fare male a nessuno, lì vicino c’era un fotografo che scattò una foto. Una immagine che fu più volte riprodotta e che divenne uno dei simboli della prima intifada (ne seguirono altre due nel corso degli anni).
Ramzi era un bimbo riccioluto. Indossava un giubbotto arancione con il collo imbottito (a dicembre può fare freddo in Palestina), dei jeans scoloriti e un paio di scarpe chiare tutte infangate. Oggi mi sta di fronte in una assolata giornata di febbraio nel Parco della musica di Roma. Ha 44 anni, i ricci fanno corona a una fronte un po’ stempiata, attorno al collo indossa una sciarpa rossa. È giunto nella capitale per partecipare a una giornata in ricordo di Claudio Abbado, il grande direttore d’orchestra scomparso dieci anni fa. La musica ormai è la vita di quel bambino che lanciava le pietre.
Ramzi, nato a Betlemme nel 1979, ricorda così i giorni dell’intifada: «Ero nel campo profughi di Al Amari, vicino a Ramallah, quando è iniziata la prima intifada. L’esercito di occupazione è entrato nel campo, eravamo tutti giovani e bambini. Avevamo bisogno di manifestare la nostra rabbia. E lanciare le pietre era l’unico modo per esprimerci in quel momento».
Chissà che cosa sarebbe diventata la vita di Ramzi se non avesse scoperto la musica. La musica ha cambiato la sua esistenza.
Ramzi vive la musica da musicista (suona la viola e il buzuq, una sorta di liuto), da educatore e da organizzatore di eventi musicali. Ha studiato prima al conservatorio palestinese Edward Said di Ramallah (intitolato allo scrittore e saggista palestinese che fu grande amico del direttore d’orchestra Daniel Barenboim), dove però c’erano pochi insegnanti e si esercitava praticamente da solo.
La formazione in Francia
Nel 1998 ha avuto l’occasione di andare in Francia e studiare musica ad Angers. Qui Ramzi ha cominciato a coltivare un sogno. «Dopo l’esperienza francese ho voluto portare la musica a tutti i bambini palestinesi per dare loro l’opportunità che avevo avuto io. Così nel 2002 sono tornato in Palestina, mentre si combatteva la seconda intifada», racconta Ramzi.
Comincia a insegnare musica ai bimbi dei campi profughi, poi grazie alle conoscenze maturate durante il soggiorno in Francia fa arrivare musicisti che lo aiutano nei suoi progetti educativi. Così nasce l’organizzazione non profit Al-Kamadjâti, che gestisce un conservatorio in Palestina e insegna musica nei campi profughi in Libano. «Le giovani generazioni che vivono sotto l’occupazione e l’oppressione», dice Ramzi, «a un certo punto hanno bisogno di far sentire la propria voce. E la musica può diventare un mezzo potente e universale per esprimere e raccontare le proprie emozioni».

Il seguito sulla rivista

di Roberto Zichittella

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