Una donna di pace e libertà

Ricordiamo Shahla Lahiji, prima editrice iraniana e grande intellettuale. Per tutta la vita ha lottato contro la censura, difendendo il diritto di esprimere il proprio pensiero.

L’8 gennaio scorso è morta in un ospedale di Teheran, capitale dell’Iran, Shahla Lahiji, prima editrice donna iraniana, indomita paladina della cultura, antesignana della straordinaria mobilitazione di protesta che sta ora attraversando la società persiana con lo slogan: «Jin, jiyan, azadî», «Donna, vita, libertà».
Lahiji proveniva da una famiglia colta: la bisnonna era scrittrice, la nonna insegnante, la mamma una delle prime impiegate in un ufficio governativo. L’amore per la letteratura la spinse a fondare una casa editrice, la Roshangaran. Già nel libro d’esordio esprimeva una chiarissima dichiarazione d’intenti: pubblicare solo testi che «difendono la democrazia, i diritti civili, le donne e la libertà, contro ogni forma di totalitarismo». Una finalità scomoda, al punto che nei primi cinque anni di attività riuscì a diffondere solo cinque volumi, uno all’anno. Gli altri vennero fermati dalla censura. Ma la voce di chi non ha voce spesso risuona più forte e la notizia uscì dai confini del Paese.
La casa editrice ricevette il premio Pen International e il Pandora Prize, attirando ulteriormente l’attenzione della polizia. Nel 2000 Lahiji venne condannata a tre anni e mezzo di carcere duro per aver partecipato a una conferenza accademica a Berlino, dove si dibatteva delle riforme politiche e sociali in Iran. La pena venne poi ridotta a sei mesi di detenzione, ma spinse Lahiji a difendersi con parole indimenticabili: «Faccio l’editore, sono scrittrice e ricercatrice. Non sono un eroe, né un’attivista politica, ma credo fermamente che il sistema che agisce reprimendo la libertà della cultura sia un sistema che ha paura delle persone che non usano la violenza ma solo la loro conoscenza, che lottano, quindi, in modo civile per i loro diritti di cittadini».
Contro la censura l’editrice ha combattuto tutta la vita superando proibizioni, ossessive richieste di revisione dei testi, programmata mancanza di carta, divieto di vendere il libro (con conseguente sequestro) dopo la pubblicazione, come è avvenuto, per esempio, ai volumi di Milan Kundera e di Gabriel García Márquez.
Con altri editori che contavano numerosi titoli “illegali”, Lahiji redige un reclamo rivolto al ministro della Cultura, accusandolo di agire «contro la Costituzione». Shirin Ebadi, avvocatessa, vincitrice del premio Nobel per la Pace nel 2003, è stata la portavoce di quel manipolo di coraggiosi editori che, sebbene consapevoli della sconfitta, avevano comunque deciso di intraprendere una battaglia civile per la libertà di parola.

Il seguito sulla rivista.

di Marta Perrini

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