Il coraggio delle madri no Pfas

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Nel Nord-Est un gruppo di mamme ha denunciato l’inquinamento dell’acqua con sostanze dannose per la salute. Ora si è costituito parte civile nel processo contro l’azienda che ignorò il rischio. 

Più forti della pesante cortina di silenzio che per anni ha coperto una delle più grandi emergenze ambientali mai scoppiate in Italia, chiamata Pfas. Se oggi è noto a tutti che l’area di 150 chilometri quadrati nel cuore del Nord-Est, tra le province di Padova, Vicenza e Verona, ribattezzata Zona rossa, abitata da 350 mila residenti, è coinvolta in un serio rischio per contaminazione delle acque da parte di sostanze fluoroalchiliche, è soprattutto per merito loro: un gruppo di mamme venete che hanno deciso di alzare la voce. Voce di genitori di figli avvelenati, che chiedono una corretta informazione e soluzioni concrete al problema, cercando di stanare il negazionismo strisciante delle istituzioni.
Prima della loro mobilitazione la notizia era rimasta confinata nelle sole cronache locali, anche se di pervasività dei Pfas, cioè di questo grande gruppo di composti chimici utilizzati per realizzare una svariata serie di prodotti antiaderenti, impermeabili o antimacchia, si parlava già da tempo: associazioni ambientaliste, autorità mediche, studi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) ne avevano segnalato la subdola pericolosità. C’è voluto, però, il coraggio di queste madri per sollevare il caso, fare avviare le indagini e attivare la magistratura che oggi ha portato alla sbarra i presunti inquinatori.
«Tutto è iniziato nel 2017, con le analisi sulla ricerca dei Pfas nel sangue dei nostri ragazzi, effettuate per un’indagine di sorveglianza della Regione. Ebbene, la concentrazione di perfluorati era superiore di 40 volte rispetto a quella delle persone non esposte», spiega Giovanna Dal Lago, di Lonigo, nel Vicentino, una delle fondatrici di Mamme no Pfas. 
Ad avvelenare i ragazzi era l’acqua che usciva dai rubinetti di casa. Dalla falda acquifera contaminata per decenni da Pfas attingono, infatti, gli acquedotti per l’approvvigionamento idrico degli abitanti di 80 Comuni delle tre province venete coinvolte. I Pfas erano generati dall’azienda chimica vicentina Miteni di Trissino, che iniziò a produrre perfluorati nel 1964, quando si chiamava Rimar, e che sorge proprio sopra la zona di ricarica della falda. Due anni fa, davanti alla Corte d’assise di Vicenza, è iniziato il maxi-processo, uno dei più grandi in Italia per reati ambientali: al banco degli imputati 15 dirigenti della Miteni, con varie accuse.

Il seguito sulla rivista.

di Alberto Laggia

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