Un pianeta ferito

A sessant’anni dalla tragedia del Vajont, purtroppo poco è cambiato. L’uomo continua a sfruttare il territorio per il proprio tornaconto, con effetti devastanti. Come anche i recenti disastri hanno confermato.

Un po’ la natura, un po’ la mano dell’uomo. La Terra, data, secondo il racconto della Genesi, ad Adamo perché la custodisse e la coltivasse, si ribella alle violenze che nel corso dei secoli l’umanità le ha inflitto. E sembra che non si sia capaci di imparare dal passato per cominciare a porre rimedio alle ferite inferte al pianeta. Che presentano, prima o poi, il conto. Le immagini delle recenti alluvioni hanno rievocato altre acque che, nei vicini Friuli e Veneto, la notte del 9 ottobre 1963, inghiottirono in pochi minuti 1.910 persone (di circa 500 non si ritroveranno neanche i corpi).
Dormivano tranquilli gli abitanti dei Comuni a ridosso della diga artificiale del Vajont, costruita per lo sfruttamento idrogeologico. A dire il vero, durante la progettazione e la costruzione di quest’opera così imponente da graffiare la natura, non erano mancate le proteste. Attorno al bacino, ricorda la giornalista Tina Merlin, che più volte aveva denunciato il rischio di una «tragedia annunciata», c’era stata «una storia di popolo […] di lotte, ribellioni, partecipazione civile contro i potenti, le loro angherie, le loro leggi, la trasgressione delle leggi dello Stato, la licenza di uccidere, la difesa del diritto, la rivendicazione della giustizia».
Una giustizia arrivata tardi, sia per le morti che si potevano evitare, sia per gli esiti legali. La sentenza definitiva che condanna Enel, Montedison, Stato italiano a un risarcimento pari a 99 miliardi di lire arriva, infatti, solo nel 2000. Dalle carte emerge la consapevolezza, da parte dei tecnici, che un impianto del genere, in un luogo non idoneo geologicamente e ad alto rischio sismico, non doveva essere costruito.
Voci inascoltate, come sembrano oggi quelle degli esperti che hanno espresso parere sfavorevole alla costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Un’opera, per la gran parte degli ingegneri che hanno studiato il territorio, «infattibile», visti la conformazione dei luoghi, il pericolo di terremoti, il movimento delle due regioni, Calabria e Sicilia, che ogni anno allontana di qualche millimetro le due sponde e solleva la crosta dell’isola.
Pare, però, che davvero non si voglia imparare dal passato quando in ballo ci sono investimenti ingenti. Allora come oggi l’Italia è bisognosa di energia elettrica, industrie, sviluppo economico, capitali. E agisce senza tenere conto del consumo di suolo e di ambiente.

Tra sostenibilità e territorio vulnerabile
Il nostro Paese deve fare i conti con un rischio di dissesto idrogeologico che, secondo i dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), riguarda il 93,9 per cento dei Comuni, tra possibili frane, alluvioni o erosione costiera. Le regioni più a rischio sono Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia, Liguria. Per questo è fondamentale progettare tenendo conto di caratteristiche ambientali che non possono essere forzate a pena di aumentare l’insicurezza. È importante limitare il più possibile il consumo del suolo. Vanno in questa direzione il Green Deal dell’Unione europea, i fondi di Next Generation Eu e, in Italia, i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che contemplano investimenti per interventi che riducano l’impatto antropico.

Il caso dell’Emilia-Romagna
Si pensi, per esempio, alle alluvioni in Emilia-Romagna dello scorso maggio. La regione è al terzo posto per consumo di suolo, un dato che influisce sugli esiti del fenomeno atmosferico perché le aree cementificate costituiscono un ostacolo a flussi d’acqua copiosi e improvvisi, come quelli che si stanno verificando negli ultimi anni a causa dei cambiamenti climatici, e contribuiscono all’impermeabilizzazione di un terreno sempre più arso dai lunghi periodi di siccità.

Il seguito sulla rivista.

di Fabiana Bussola

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