Lady dal fiocco blu

A cinquant’anni dalla nascita, Oscar, eroina della Rivoluzione francese, è ancora salda nell’immaginario collettivo. Perché rappresenta l’autenticità, il coraggio di essere chi si vuole essere.

Al secolo Oscar François de Jarjayes. Non ha mai avuto né carne né ossa, né è mai appartenuta alla Storia con la S maiuscola. Eppure chi l’ha conosciuta da bambino, nel suo status di personaggio inventato meglio noto come Lady Oscar, anche da grande non può evocare la Rivoluzione francese senza rivolgere un pensiero di gratitudine alla bionda tormentata eroina cresciuta dal padre come maschio e avviata alla vita militare alla corte di Versailles, tuttora salda nell’immaginario collettivo, al punto che il web ne commemora ogni 14 luglio la morte come si fa con gli eroi civili.
A mezzo secolo dalla nascita grazie al pennino di Riyoko Ikeda, tra le prime donne a disegnare fumetti giapponesi (manga), e a 40 dalla prima messa in onda in Italia della serie animata mai più uscita dai palinsesti, ancora basta un innesco qualunque per riportare Lady Oscar d’attualità, con un popolo di appassionati pronto a difenderla ogni volta che qualcuno la tira per le falde della giubba da ufficiale. Non stupisce, dunque, che lo snodo degli anniversari abbia innescato letture dotte, come quella di Silvia Stucchi, filologa classica, docente di Lingua latina all’Università Cattolica di Milano, che al personaggio dell’anime (così si chiamano i cartoni del Sol Levante) ha dedicato il saggio Lady dal fiocco blu. Cinquant’anni con Oscar (Graphe.it edizioni).
«Sia Riyoko Ikeda, autrice del manga, sia gli autori dell’anime», spiega, «hanno realizzato un prodotto giapponese, destinato al mercato occidentale e ambientato nella Francia del Settecento, con molti rimandi al mondo classico, alla mitologia, al classicismo francese nelle immagini e nei tratti dei personaggi (Castore e Polluce, Diana e Atteone, Giovanna d’Arco…). Riguardando l’anime con occhi adulti ci si rende conto che è in senso classico una tragedia, forse la prima a cui le generazioni che lo hanno visto hanno assistito nell’infanzia».

Il seguito sulla rivista.

di Elisa Chiari

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