La sfida del nucleare pulito
I recenti esperimenti di fusione del nucleo atomico costituiscono un importante passo avanti. Anche se ci vorranno decenni prima di poter sfruttare queste reazioni per produrre energia elettrica.
Il dibattito sull’energia nucleare, che per lungo tempo è rimasto sopito, negli ultimi anni è tornato alla ribalta. L’apice è stato toccato nei primi giorni di dicembre, quando i media americani hanno diffuso la notizia che, per la prima volta, un esperimento di fusione nucleare aveva prodotto più energia di quella necessaria per innescarla, «un passo che potrebbe rivoluzionare il mondo». Marilù Chiofalo, professoressa di Fisica all’Università di Pisa, attiva in numerosi gruppi di studio e ricerca, autrice di format radio e video per la divulgazione della scienza e per dieci anni assessora del Comune di Pisa, ci aiuta a comprendere se davvero si è trattato di «una svolta storica».
«Il dialogo sul nucleare è molto acceso dal punto di vista economico, politico e scientifico, ma per affrontarlo è importante porsi domande: cosa è energia? Cosa significa produrla? Quali sono le sue caratteristiche?», spiega. «Al riguardo ci vengono in soccorso le tre leggi della termodinamica, secondo le quali con l’energia non si può vincere né pareggiare, ma solo perdere il meno possibile. Assumendo questo concetto come guida, possiamo comprendere come produrre energia ne richieda altra, in una filiera di costi, dal reperimento delle materie prime alla produzione e alla dismissione. Allora, anche per il nucleare, bisogna chiedersi quanto perdiamo e cosa rischiamo, per poi mettere sulla bilancia i vari fattori in maniera critica, come il pensiero scientifico insegna a fare».
Secondo le stime del 2020 nel mondo vengono consumati 27 milioni di gigawattora all’anno (per una famiglia italiana di tre persone si parla di circa 2.700 kilowatt), di cui 21 provengono dalle fonti fossili, circa tre dalle rinnovabili e due dal nucleare, che copre meno dell’8 per cento del fabbisogno. Una percentuale piuttosto esigua che si motiva con i pericoli legati agli isotopi radioattivi dannosi per la salute e l’ambiente. «Così come l’energia che proviene dal carbone immette nell’ambiente anidride carbonica, anche il nucleare produce risultati indesiderati», prosegue la Chiofalo. «Nella produzione di energia nucleare si bombardano atomi di grande massa, in particolare uranio 235, con neutroni, particelle presenti nel nucleo degli atomi. L’uranio si scinde in atomi più piccoli, producendo ulteriori neutroni che determinano la fissione di altri atomi in un processo a catena. La somma delle masse di tutti i prodotti della reazione è minore di quella del nucleo originario: la massa mancante equivale a un’enorme quantità di energia, per ogni chilo pari a quella ottenuta bruciando tre milioni di tonnellate di carbone. Tra i prodotti della reazione vi sono, però, atomi altamente instabili che decadono emettendo radiazioni molto dannose e che rimangono radioattivi dalle centinaia alle centinaia di migliaia di anni a seconda dei prodotti. È, dunque, cruciale la capacità di stoccaggio e smaltimento in condizioni di totale sicurezza».
Il seguito sulla rivista.
di Marta Perrini