Italia fragile

Il nostro Paese si presenta vulnerabile all’appuntamento con il nuovo anno. Non solo per la crisi energetica ed economica, ma anche per il venir meno dei valori condivisi. È tempo allora di ricostruire la nazione, guardando ai traguardi da raggiungere insieme.

È un’Italia fragile quella che si presenta all’appuntamento con il nuovo anno. E non solo per la tragedia che ha funestato Ischia. Non solo per la crisi energetica ed economica. Non solo per la violenza che serpeggia e per le rivendicazioni degli uni contro gli altri. Dopo aver costruito, e tanto, nel dopoguerra, abbiamo cominciato a ritrarci nel privato. A mettere prima l’io del noi, a cercare il nostro successo e la nostra ricchezza prima di quelli del Paese e della collettività. È come se fossero venuti meno quei valori condivisi che, anche partendo da punti di vista diversi, ci facevano riconoscere come appartenenti a uno stesso tessuto sociale, a una stessa nazione, a uno stesso genere umano.
Abbiamo riprovato, per un po’, durante il primo lockdown, quella sensazione di Paese unito, pronto a stringere la cinghia, a darsi una mano, a fare fronte comune contro le avversità. Ma poi abbiamo di nuovo dissipato questa ritrovata unità. Eppure abbiamo sperimentato che ci vuole lo sforzo di tutti perché le cose vadano meglio. Abbiamo toccato con mano che nessuno si salva da solo, ma non abbiamo saputo o voluto dare seguito a questa intuizione.
Ce lo ricorda la natura, ogni tanto, che non possiamo truccare le carte. Che i condoni presto o tardi presentano il conto. Che se non si fanno progetti a lunga scadenza il futuro finisce per sbriciolarsi tra le nostre mani. Pensiamo al dissesto della nostra bella Italia. «Dal dopoguerra spendiamo 5 miliardi di euro all’anno solo per risarcire e riparare i danni dei disastri naturali (alluvioni, frane, terremoti, incendi) e siamo il Paese con più rischi e meno prevenzione del mondo», scriveva già dieci anni fa Erasmo D’Angelis nel suo libro Come riparare l’Italia.
E oggi il Censis ci ricorda, con un’analisi impietosa della situazione del nostro Paese, che siamo diventati «malinconici e spaventati», immersi in quello che gli informatici chiamano «stato di latenza», cioè in attesa di risposte che altri, sempre altri, dovrebbero dare. Secondo il 56° rapporto che il Centro studi investimenti sociali ha pubblicato alla fine dello scorso anno, l’Italia si presenta alla prova del 2023 con un bagaglio di paure derivanti dal covid, dalla guerra in Ucraina, dall’inflazione in crescita e dal problema dell’energia. Timori che poggiano su una vulnerabilità percepita anche negli anni precedenti. Che conduce a un’instabilità complessiva che quasi paralizza. Non è un caso che il nostro Paese abbia il maggior numero in Europa di Neet (Not in education, employment or training), cioè giovani che non studiano e non lavorano. Un’ampia “fetta” della società che non ha, dunque, progetti per il futuro.

Il seguito sulla rivista.

di Antonio Dell’Anna

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