Il profumo di Trieste in una tazzina

Chi l’ha detto che l’espresso migliore è quello di Napoli? Anche il capoluogo friulano, città di confine e di contaminazioni, offre un ottimo caffè. Da sorseggiare con calma, in riva al mare. Un vero e proprio rito da condividere.

«Un capo in b, per favore». Il bar è pieno di gente accalcata al bancone. Qui il rito del caffè è una fede. Non si può sgarrare. E l’ignaro turista che mette piede per la prima volta a Trieste rimane un po’ sorpreso. «Un capo in b? E che cos’è?». È il caffè macchiato caldo servito in un bicchierino di vetro, tipico della città, per triestini doc. Perché, diciamoci la verità, tutti pensiamo che il caffè migliore si beva a Napoli, ma, andando più a fondo e immergendosi nei libri di storia e nei capolavori della letteratura, si scopre che il capoluogo friulano non è da meno. La città più “viennese” di tutte, la più irredentista e, quindi, la più fortemente italiana, con tanta pulsione asburgica nelle vene, è in fondo la città del caffè. E dei caffè.
Qui sorseggiare un caffè significa assaggiare la vita, guardare il mare da piazza Unità d’Italia attraverso i suoi bar storici.
La città delle contaminazioni è la patria del caffè. Che ha diversi nomi, diversi racconti. Che vede le sue rinomate caffetterie, come il Caffè San Marco, mettersi al riparo dalla bolgia turistica e tenere un posto e una sedia riservati esclusivamente al principe degli intellettuali italiani, Claudio Magris, che della città mitteleuropea per eccellenza ha fatto il centro del suo pensiero.
Qui il caffè non è veloce. Si degusta piano piano, si aspetta il momento giusto per berlo con gli amici. Qui il caffè non innervosisce, semmai placa gli animi. E pure quando c’è la bora, riesce ad ammansirla.
Il caffè a Trieste sa riposare con i racconti di uomini e donne capitati qui per caso. Contrabbandieri, pirati, partigiani, matti: sembra che qui ai loschi figuri – per i quali non nascondiamo la nostra simpatia – la storia abbia lasciato uno spazio di cittadinanza. E il caffè accomuna tutti. Ci si siede, si gode del tempo a disposizione, si butta la fretta e ci si fa compagnia.
D’altronde non potrebbe essere altrimenti. Lo scorso marzo per poco il caffè italiano non è diventato Patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco. La candidatura parlava di «caffè espresso italiano tra cultura, rito, socialità e letteratura nelle comunità emblematiche da Venezia a Napoli». Ecco, appunto. Da Venezia e Napoli. Magari passando pure per Trieste, aggiungiamo noi. Del resto, anche se uno dei grandi produttori di caffè in Italia è un triestino, il racconto popolare ci ha sempre spiegato che il caffè è partenopeo, scuro, forte, intenso.
Ma i triestini non si arrabbiano per questo, anzi. Nascondono nel cuore la certezza che il loro sia parte integrante della cultura locale. Al primo posto nel codice antropologico del buon triestino.
Il caffè a Trieste è l’ultimo antidoto alla frenesia che ci assale, l’ultima mano tesa al viaggiatore sconosciuto, all’immigrato che valica le frontiere, al malato di mente che scende in piazza a festeggiare con un cavallo di legno (caro Franco Basaglia, quanto ci manchi…), l’ultimo piacere olfattivo prima dell’inizio della Barcolana. E sicuramente è il cibo migliore (anche se è una spezia immersa nell’acqua bollente) per abbeverarsi alle fonti delle religioni, dopo aver partecipato a una celebrazione liturgica nella chiesa serbo-ortodossa o in quella greco-ortodossa o, ancora, nel tempio ebraico.

Il seguito sulla rivista.

di Gianni Di Santo

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