Cercando il senso della vita

Il tema dell’aldilà, di ciò che esiste e r-esiste dopo la morte, ha sempre affascinato scrittori e poeti. Ecco allora che, quando noi, carichi di domande senza risposta, restiamo senza parole, i classici ci soccorrono con le loro. Per infonderci fiducia, fede, speranza.

L’è ‘l dì d’i mort, alegher! Letteralmente: è il giorno dei morti, allegri! L’incipit di Delio Tessa, poeta dialettale milanese, erede novecentesco di Carlo Porta, è il primo che sovviene, aderente com’è alla ricorrenza novembrina che ci riconnette alla memoria e al culto di chi ci ha preceduto. Dissacrante in apparenza, invita a cogliere l’attimo e afferrare la vita, ma è solo un modo di esorcizzare la guerra e quel massacro di decine di migliaia di giovani vite che fu Caporetto.
A ben guardare, l’intera storia della letteratura finisce per non allontanarsi mai troppo dai due massimi misteri in cui si dibatte l’umano: l’amore, più o meno corrisposto, che tutti muove, e il senso, ineluttabile, di finitezza che tutti accompagna. 
Il «dì sesto d’aprile», data simbolica dell’incontro con Laura (anchetipo di tutte le donne amate nella lirica italiana) e poi della morte di lei, è – come ebbe a dimostrare magistralmente il critico letterario Marco Santagata – l’architrave su cui si regge la complessa architettura del Canzoniere di Petrarca. L’amore dell’epoca rientra, poeticamente parlando, in schemi tradizionali, non ha molto o ha poco a che fare con il dato biografico e con la spontaneità che troveranno cittadinanza nel dettato poetico solo secoli più tardi. Ma, se il morire per amore è un luogo comune letterario della lirica amorosa fin dalle origini della produzione in volgare italiano, è sicuramente, invece, un dato di comune esperienza dell’uomo medievale la perdita di persone care in giovane età. Non per caso la morte di Beatrice è per l’immaginario di Dante Alighieri un motore così potente da ispirare prima la Vita Nova e poi la Divina Commedia, impareggiabile poema ambientato tra le anime di inferno, purgatorio e paradiso, carico di una straordinaria vivezza di personaggi, nonché di un’infinità di simboli e significati che sette secoli non ci sono bastati a indagare compiutamente. 
La poesia fin dall’antichità, secondo una tradizione d’oraziana memoria, è per sé stessa via di fuga dalla caducità, potremmo dire, dal 2 novembre dell’umanità. «Ho levato un ricordo che ha più vita del bronzo, / più alto del regale riposo delle piramidi / non lo distruggerà la pioggia che consuma, il folle vento, l’eterna / catena degli anni, la fuga del tempo. / Non sarà vera fine. / molto di me si salverà da morte», scrive Orazio nel congedo del terzo libro delle Odi: è la poesia il monumento imperituro cui allude. Siamo in Roma antica, a ridosso della nascita di Cristo.

Il seguito sulla rivista.

di Elisa Chiari 

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