Rinascere dalla mafia
Sono passati trent’anni dalla strage di via D’Amelio, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Ripercorriamo la storia dell’organizzazione criminale e di chi eroicamente, a costo della vita, cercò di combatterla.
La storia della mafia affonda le sue radici nei secoli precedenti, ma non è mai stata sola. Da sempre è accompagnata dalla storia dell’antimafia. Una storia, agli inizi, sottovalutata da tutti, gente comune, movimenti politici e sindacali, storici e sociologi. Fortunatamente, però, ha sempre incontrato protagonisti che si sono schierati per portarla avanti. Braccianti, operai e magistrati, giornalisti, leader politici, uomini di Chiesa, divenuti, purtroppo, famosi. Tutti contrari all’illegalità e alle organizzazioni criminali che proprio in Sicilia diventavano, giorno dopo giorno, sempre più opprimenti. Grazie a loro, alle loro denunce, al loro spiccato senso civico oggi possiamo dire che contro le mafie ci siamo e le combattiamo.
Sono passati più di centottanta anni da quando si ipotizzò per la prima volta il fenomeno mafioso. Nel 1838 il procuratore generale di Trapani, Pietro Calà Ulloa, scriveva all’allora ministro di Giustizia: «Non v’è impiegato che non sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trar profitto dal suo uffizio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle fratellanze, specie di sette, che si dicono partiti, senza colore e scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo». Nel modus operandi dopo quasi due secoli non sembra sia cambiato molto, sia nell’organizzazione sia nella società, dove c’è gente sempre pronta a trarre profitto dal malaffare. Una mafia sempre spietata contro i suoi nemici, ma con un suo codice morale. All’indomani dell’Unità d’Italia, nella sua lotta allo Stato sopraffattore a difesa dei deboli, non uccide carabinieri, magistrati, giornalisti. Non uccide i parenti degli avversari. Per uccidere un nemico è capace di aspettare anche vent’anni, per non ucciderlo quando è in compagnia del figlio.
Una mafia che cresce modificando le sue abitudini in sintonia con quelle della società che avanza. Si insedia ovunque può trarre profitto. Tra i commercianti, gli artigiani, gli agricoltori, gli allevatori. Nelle macellerie clandestine, nei cimiteri, nell’edilizia. E nelle banche.
Poi arriva la droga, con il traffico internazionale tra Palermo, New York e il resto del mondo. Oggigiorno la mafia ammazza sempre di meno, anzi, non ammazza quasi più, anche se i suoi nemici alla fine muoiono lo stesso, non fisicamente, ma psicologicamente e socialmente, isolati e costretti ad andarsene. Lo Stato è forte, ma non ancora abbastanza incisivo da cancellare definitivamente il fenomeno mafioso.
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di Antonio Dell’Anna