Quel che resta di Tangentopoli
Dalla tangente intascata da Mario Chiesa alle dimissioni di Antonio Di Pietro, oggi, a trent’anni dalla più grande inchiesta sulla corruzione in Italia, ripercorriamo le vicende giudiziarie che segnarono la fine della Prima Repubblica. Per cogliere ciò che di Mani Pulite è giunto fino a noi.
Sono passati trent’anni e il mondo è completamente cambiato. Di sicuro non come ce lo aspettavamo noi, che abbiamo vissuto la “rivoluzione” del periodo legato a Tangentopoli.
Proprio il 17 febbraio di tre decenni fa fu arrestato Mario Chiesa, all’epoca a capo del Pio Albergo Trivulzio, soprannominato la “Baggina” perché collocato nei pressi del quartiere Baggio di Milano, che fece scattare la più grande inchiesta sulla corruzione in Italia, nota come Mani Pulite. Le indagini all’epoca coinvolsero anche gli esponenti dei principali partiti italiani e portarono alla fine della cosiddetta Prima Repubblica.
Quel 17 febbraio del 1992 io non c’ero a Palazzo di Giustizia, o perlomeno, non c’ero ancora. Avevo 24 anni, ero già una giornalista e lavoravo a La Notte, ultimo e indimenticabile quotidiano del pomeriggio di Milano. Solo una manciata di mesi dopo sarei diventata professioni sta. Ma, per il momento, ero impegnatissima a salire e scendere le scale della questura, ad arrivare sul luogo del delitto per prima e, come si usa dire, a farmi le ossa. Il mio primo incarico come cronista di nera.
Intanto, però, quello scarno lancio dell’Ansa battuto alle 22.16 del 17 febbraio stava per cambiarmi la vita. E, come a me, così a tutti i giornalisti di Milano: «L’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, una casa di riposo per anziani, è stato arrestato questa sera dai carabinieri con l’accusa di concussione. Lo hanno reso noto gli investigatori con un comunicato diramato in serata».
Ma che cosa era successo? Come raccontarono in procura a Milano la mattina seguente, mentre facevamo il giro dei pubblici ministeri per raccogliere qualche informazione in più per colorare il pezzo di cronaca, alle 17.30 era entrato nell’ufficio di Chiesa Luca Magni, il titolare di una piccola impresa di pulizie di Monza, la Ilpi, che si era aggiudicata un appalto. Aveva in tasca una busta bianca con sette milioni di lire. Era la tangente per la commessa di 140 milioni: secondo il sistema diffuso, coloro che volevano lavorare per l’istituto dovevano passare la bustarella. Ciò che Chiesa non sapeva, in quel momento, era che Magni si era presentato qualche giorno prima dai carabinieri per raccontare la richiesta di tangente. E che questi ultimi lo avevano portato direttamente nell’ufficio del pubblico ministero di turno, un tal Antonio Di Pietro da Montenero di Bisaccia che, da allora in poi, avremmo tutti imparato a conoscere molto bene.
Il seguito sulla rivista.
di Elisabetta Montanari