La morte ha l’ultima parola?
Perché vivere se dobbiamo morire? Nel mese in cui si ricordano i nostri defunti, riflessioni sul senso dell’esistenza terrena.
Mi imbatto nella notizia tragica di un ragazzino che si è tolto la vita. Mi interrogo sulla fatica dell’esistenza umana, carica di soli pochi anni, e su un epilogo così tremendo. Cosa sarà passato nella sua testa? Quanto avrà capito della vita per decidere di non volerla più proseguire?
La morte entra nelle nostre vicende quotidiane con crudezza. Il vortice che ne segue può togliere spazio alla forza della vita e alla ricchezza di bene che tutti gli esseri viventi portano al mondo: un Creato che, come ricorda san Paolo, geme e soffre le doglie del parto (Lettera ai Romani, capitolo 8, versetto 22), una tensione dolorosa nella ricerca di pienezza.
È complesso capire e accettare che la sofferenza, la caducità e perfino la morte sono da interpretare, nell’annuncio cristiano, in una prospettiva di speranza. Che sono situazioni che conducono a una visione di gloria.
Tendiamo a separare sofferenza e compimento, non ne vediamo la conseguenza logica. Ma non c’è mai l’una senza l’altro. La metafora del parto, del dolore come preludio alla gloria, del limite posto come legge a cui tutti devono sottostare, rappresenta un modello cui riferirsi.
Trovo tre affermazioni negli scritti del grande teologo tedesco Karl Rahner (Sulla teologia della morte, 1958) che cercano di spiegare il significato profondo della morte. La prima prospetta «la morte come conclusione di una storia di libertà». L’uomo, di fronte alla morte, è passivo, la morte lo coglie dall’esterno. Ma la stessa morte è il risultato della vita, dove ciascuno realizza sé stesso. Il morire è, quindi, l’atto che porta a compimento la vita.
La seconda presenta «la morte come manifestazione del peccato». La morte è un evento che riguarda tutti gli uomini. La teologia cristiana la presenta come conseguenza del peccato, non nel senso che se l’uomo non avesse peccato non avrebbe conosciuto la morte, ma che non avrebbe conosciuto questa morte, misteriosa e oscura. La terza descrive «la morte come evento di salvezza ». È occasione di unione con Cristo, il quale ha cambiato la maledizione della morte in benedizione.
Come cristiano cerco nella mia debolezza la coerenza della vita di fede e voglio trovare il modo di esprimerla. Ecco perché salutare un defunto, come talvolta si sente, augurandogli «che la terra ti sia lieve» − senza pensare che l’affermazione chiude ogni visione di vita oltre la morte − mette definitivamente tutto sotto terra. Così come è differente chiamare il luogo sacro della sepoltura necropoli, città dei morti, come avveniva nell’antichità, piuttosto che cimitero, luogo del riposo, in attesa della Risurrezione. «Noi eravamo quello che voi siete, e quello che noi siamo voi sarete», dice l’adagio posto nel camposanto.
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di don Roberto Ponti