La morte che parla alla vita

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Avere un luogo sul quale piangere, al quale fare riferimento, non cancella il dolore, ma offre spazio ai ricordi, alle lacrime, all’accettazione. Per il credente, tuttavia, solo il corpo si consuma e diventa polvere, cenere. L’anima, invece, non muore mai.

Le tombe, il culto dei morti… Trattare temi così ampi e profondi obbligherebbe anche a fare riferimento ai moltissimi poeti, scrittori e autori, italiani e non, che hanno lasciato traccia di questi argomenti con intensità. Basterebbe, in proposito, citare I sepolcri di Ugo Foscolo. Ma il senso di questi pensieri vuole essere, senza alcuna pretesa di completezza – bisognerebbe, infatti, anche coinvolgere la psicologia sull’elaborazione del lutto e sul distacco – una condivisione a partire da alcune esperienze. Una riflessione che guarda a ciò che viviamo, con la banalizzazione della morte e un’indifferenza diffusa, da un lato, e testimonianze di umanità, dall’altro. È il caso, per esempio, di quel papà che a settembre è andato per diversi giorni in bicicletta al fiume Adda per immergersi e cercare con ostinazione la figlia Hafsa, annegata a soli 15 anni e ritrovata dopo un po’ di tempo. Un padre che non si dava pace e che ha commosso tutti. La sua speranza era ritrovare almeno il corpo della ragazza per poterle dare sepoltura e avere un luogo dove portare almeno un fiore. Perché avere un posto sul quale piangere, al quale fare riferimento, non cancella il dolore, ma offre spazio ai ricordi, alle lacrime, all’accettazione. Il credente poi è anche supportato dalla fede, secondo la quale solo il corpo si consuma e diventa polvere, cenere. L’anima, invece, non muore mai.

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Renato Sacco

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