Il bene, unica realtà

A farci da guida in questo tema complesso è Giovanni Pernigotto, teologo, filosofo e autore del libro Processo al male. Per mettere in scacco il negativo che ci abita occorre rifondare il senso di comunione, con empatia e responsabilità.

«Dove ti fa male?». Questa parola fa capolino nella nostra esistenza fin da piccolissimi, quando, non stando bene, ci viene chiesto di indicare a mamma e papà il luogo in cui ve sentiamo dolore. E poi non ci abbandona più. Il male ha mille sfaccettature, che riguardano la vita di ognuno nell’ambito sia personale, sia pubblico. C’è il male fisico (malattie, carestie, epidemie, conseguenze di devastanti eventi naturali…), quello morale (violenza, guerre…) e quello metafisico (la difficoltà di trovare un senso, la serenità, la pace…). Il male sembra sempre più avvolgerci e coinvolgerci in questo nostro tempo travagliato.
Da migliaia di anni filosofie e religioni hanno cercato di dare una risposta alle domande che tutti ci facciamo: perché c’è il male? E soprattutto, cosa possiamo fare di fronte a tanta violenza, tante vittime innocenti, tanta disperazione e sofferenza? Spesso siamo indotti a pensare che non si possa fare niente. Che il male sia ineluttabile. Nel mondo si commettono sempre gli stessi errori, senza imparare dal passato (basta pensare alle guerre a Gaza e in Ucraina). Non si riescono a fermare le pandemie, le carestie, la fame, la povertà, le ingiustizie, i soprusi, i femminicidi.
Cristianesimo e religioni orientali
E allora non possiamo, come esseri umani, non continuare a chiedercelo: possiamo fare qualcosa o dobbiamo rassegnarci alla vittoria del male? «In migliaia di anni teologie e filosofie hanno cercato di rispondere a questi interrogativi, con esiti diversi. Una prima risposta è la disperazione di chi non è riuscito a trovare un senso alla sofferenza propria e altrui. Un’altra risposta è quella del cristianesimo, che promette pienezza e vita eterna nell’aldilà. Il cristianesimo più recente (dal Concilio Vaticano II in poi) sostiene che il senso c’è già qui e ora, perché l’esistenza stessa di Cristo è la risposta alla domanda. Con la sua morte la croce è diventata condivisione della sofferenza», spiega Giovanni Pernigotto, autore di Processo al male, Tre storie per un giudizio (vedi box a pagina 13), docente di teologia morale all’Istituto di Scienze religiose di Mantova e vicedirettore della Caritas diocesana della medesima città. Per i cristiani la Pasqua rappresenta, dunque, la speranza. La Resurrezione che si celebra ogni anno ricorda ai fedeli che non tutto è perduto. Un’altra possibile risposta è quella fornita dalle religioni orientali, come buddismo e induismo, che concepiscono il male come un momento contingente, destinato a svanire in una successiva fase (il tema della ciclicità e della reincarnazione).

Il seguito sulla rivista.

di Roberto Ponti

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