Diario di un malato non immaginario

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Un collaboratore di Madre racconta, con tono semi-serio, l’esperienza di una lieve ischemia, che gli ha fatto acquisire lo status di paziente. E che gli ha dato, tra parenti da rassicurare e medici da ascoltare, una lezione di vita.

Intorno ai 60 anni, al tempo dell’età di mezzo, che si spera diventi senza particolari intoppi la terza età, può accadere da un giorno all’altro che cambia la vita.
Il giorno prima, a parte qualche piccolo o medio acciacco, sai di poter fare tutto, o quasi, da solo, immaginare programmi futuri, essere un punto di riferimento per i parenti bisognosi, divertirti con qualche piccolo azzardo consentito, gustare prelibatezze, godere di piccole e medie delizie, insomma apprezzare il bello che ti circonda. Il giorno dopo ecco il “coccolino”: ho amorevolmente chiamato così la mia leggera ischemia –che non ha colpito né la parola, né il pensiero, gravando solo sulla parte sinistra del corpo – per lasciare più tranquilli amici e parenti, che alla notizia «Vittorio è ricoverato» temono persino di chiamarmi, per non dover fare sforzi uditivi imbarazzanti nel sentirmi. E allora il diminutivo-vezzeggiativo – modello ammorbidente per il bucato con l’iconico orsacchiotto – favorisce un approccio sereno al degente. Del tipo: «Sono contento, dai, l’hai presa bene…».
Eppure, credetemi, da quel pomeriggio – superata la soglia del Pronto soccorso, dopo l’interrogatorio di prassi (come si chiama? Dove siamo? In quale città? Che giorno è oggi?) per accertare che non fossi proprio da codice rosso, l’attesa, la Tac, il ricovero notturno e soprattutto la risonanza magnetica del mattino dopo – è stata attestata una mia nuova identità: Vittorio Sammarco, paziente. Non grave, ma impegnativo. E sia. Vogliamo dire «malato»?
E questo, mi hanno detto i più, determinerà una nuova qualità della vita. Che fortuna! Che non significherà solo accortezza nella dieta, abbandono della sedentarietà, moderazione nelle emozioni (soprattutto arrabbiature), educazione al respiro e al controllo del proprio corpo in genere, ma anche – lo aggiungo adesso, dopo un mese di degenza – un aspetto ancora più importante: sincerità e trasparenza nelle relazioni con i familiari e con i medici. Mi spiego meglio.
Avendo alcune patologie da anni (a elencarle qui diventerei patetico, chiedere per conferma a chi mi conosce), ho sempre cercato di non gravare più di tanto su amici, colleghi, conoscenti. Non mi è mai andato di lamentarmi, dare fastidio, sbuffare, rispondere all’immancabile «come stai?» con qualcosa del tipo: «Povero me… Non me ne parlare… Oggi proprio…». L’ho imparato da mamma: curati, sollevati da solo, non essere mai un peso per gli altri.
Ecco, negli ultimi mesi potrei aver cambiato un po’ registro. Dopo il “coccolino” è importante che io riconosca la mia vulnerabilità, la mia fragilità, l’impossibilità di fare tutto come un tempo e la necessità di chiedere aiuto, sostegno. Un braccio, un intervento, un appoggio.

Il seguito sulla rivista.

di Vittorio Sammarco

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