«La mia vita? Un mix di film e religione»
Così definisce la propria esistenza il regista Martin Scorsese, ora nelle sale con Killers of the Flower Moon, film che narra il genocidio dei nativi americani. La prossima pellicola sarà, invece, dedicata a Gesù.
Dodici minuti di applausi alla fine della proiezione di gala, nel maggio scorso sulla Croisette, per Killers of the Flower Moon. Al di là dell’enfasi delle cronache festivaliere, un’accoglienza più che calorosa per il nuovo film di Martin Scorsese (dal 19 ottobre nelle sale italiane), tornato a ottant’anni dietro la cinepresa per narrare una delle tragiche pagine dimenticate della controversa storia americana. Non che il regista di capolavori come Mean streets, Taxi driver (Palma d’oro nel 1976 a Cannes), Toro scatenato, Il colore dei soldi, Quei bravi ragazzi, Casinò, Gangs of New York, The aviator, The departed (Oscar per la regia nel 2007), Hugo Cabret, The wolf of Wall Street avesse bisogno di dimostrare ancora la sua maestria. Aveva, piuttosto, l’esigenza di mettere il cinema al servizio di una verità umana profonda. Rivelatrice, a questo proposito, la sua confessione dopo l’anteprima. «Certo che ho ancora voglia di lavorare. Vorrei prendermi una pausa di un paio di mesi, ma, allo stesso tempo, sto già pensando al nuovo film da girare. Il mondo mi si è aperto davanti agli occhi, ma è tardi. È davvero troppo tardi», dice Scorsese con quel sorriso da ragazzo, in contrasto con i capelli argentati. «Leggo un sacco di roba. Vedo cose. Voglio raccontare storie, ma non c’è più tempo. Sono vecchio. Quando ricevette l’Oscar dalle mani di George Lucas e Steven Spielberg, Akira Kurosawa disse: “Solo adesso sto iniziando a capire che cosa può essere il cinema, ma è troppo tardi”. Aveva 83 anni e c’ero anch’io quella sera. All’epoca pensai: “Cosa vuol dire con queste parole?”. Ora l’ho capito».
I temi centrali dei suoi film: l’istintiva violenza dell’uomo e il suo conseguente rapporto con la colpa, il peccato, la religione. Poi il suo stile, inconfondibile, che mescola sequenze virtuosistiche e cruda violenza, facendo una personale sintesi tra Nouvelle Vague francese e Neorealismo italiano. E gli attori, che raggiungono vette di bravura e spesso con lui vincono l’Oscar, finendo per instaurare un rapporto di stima e di affetto che dura nel tempo. Tutto questo è presente nel nuovo film. Ma c’è di più. C’è una storia drammaticamente vera, ambientata negli anni Venti in Oklahoma, in un tempo di passaggio in cui le automobili stavano prendendo il posto di carrozze e cavalli e l’America sembrava voler cambiare, puntando sulla modernità, senza in realtà cambiare mai.
Il seguito sulla rivista.
di Maurizio Turrioni