Dov’è il sangue di tuo fratello?
A dieci anni dalla visita del Papa a Lampedusa per rendere omaggio ai migranti morti nei naufragi, nulla purtroppo è cambiato. Occorre allora andare oltre l’indifferenza, organizzando corridoi umanitari per fermare le tragedie in mare.
«Provo vergogna e orrore. È necessario rivedere le leggi anti-accoglienza». Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica nel 2013, aveva commentato così il naufragio avvenuto il 3 ottobre nelle acque del Mediterraneo. In tutto 368 morti accertati e circa 20 presunti dispersi, mentre alcune fonti dichiarano che sull’imbarcazione erano presenti almeno 545 migranti. Numeri che fanno, di questa, una delle più gravi tragedie marittime avvenute nel Mare nostrum dall’inizio del 21° secolo. I superstiti salvati sono stati 155, di cui 41 minori, tutti, tranne uno, non accompagnati.
Solo tre mesi prima papa Francesco era volato sull’isola per il suo primo viaggio da Pontefice. Aveva scelto la meta siciliana per dare la cifra del suo Pontificato: un magistero attento agli ultimi e impegnato a contrastare l’indifferenza.
«Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Da quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza». Così Bergoglio, nell’omelia della messa celebrata l’8 luglio del 2013 al campo Arena, aveva spiegato il perché della sua visita. Poi quel richiamo ai cristiani, e non solo: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Le parole del Papa risuonano ancora oggi, dopo dieci anni e in un contesto in cui i viaggi della speranza non sembrano terminare. Anzi. Nei primi otto mesi di quest’anno, secondo le stime del Governo, gli sbarchi sono stati 114.526, il doppio dello scorso anno e più del triplo rispetto al 2021. Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), i morti dei primi sei mesi sono circa 1.500, di cui circa 300 bambini.
«Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo», aveva detto dieci anni fa il Papa, «abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, perché non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro».
Il seguito sulla rivista.
di Annachiara Valle