Resilienza femminile plurale

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In occasione dell’8 marzo, raccontiamo le storie di alcune donne in Palestina, Afghanistan, Tunisia. Esempi di forza,  di coraggio, di capacità di superare gli ostacoli mettendosi in gioco. Ma anche di solidarietà e di reciproco aiuto. Per ricordare a tutti noi che le donne ce la possono fare. Soprattutto insieme.   

Palestina

La voce di quattro donne che, attraverso il lavoro, hanno riscattato sé stesse, rendendosi utili anche agli altri. 

Thikriyat, Manal Michel, Maali, Mahera. Storie di donne dalla Palestina. Donne che resistono, che vogliono restare e dare vita ai loro sogni, nonostante una situazione politica ed economica difficile: con l’occupazione israeliana sempre più opprimente, la leadership palestinese sempre più debole e inefficiente, la vita quotidiana sempre più complicata. 
Sono donne che possono sognare un futuro grazie al Volontariato internazionale per lo sviluppo (Vis), la ong presente nel Paese dal 1987. Qui l’associazione gioca un ruolo importante nei settori dell’educazione, della formazione e dell’inserimento socio-professionale. «Sosteniamo la creazione sia di imprese tradizionali attraverso il Bethlehem Business Incubator, sia di imprese sociali, che hanno lo scopo di portare beni e servizi all’interno della comunità. In tre anni abbiamo offerto supporto a oltre cento start up. Il Vis, attraverso i Salesiani, aiuta i giovani che studiano materie professionali e tecniche a realizzare le loro imprese personali, per creare lavoro», spiega Salvatore Guida, project manager del progetto Start your business, correlato all’Università di Betlemme, dove è stato aperto anche il primo Yunus social business centre del Medio Oriente.

Il seguito sulla rivista.

di Roberto Zichittella

Afghanistan

Una donna per le donne. Così la giornalista Maria Grazia Mazzola aiuta le vittime dei talebani. 

Un puntino in mezzo al mare. La prima reazione di Maria Grazia Mazzola, inviata del Tg1, è stata di impotenza. Il 30 agosto del 2021, pochi giorni dopo il ritorno dei talebani al potere, le donne dell’Afghanistan women’s political participation network di Kabul le scrivono per chiedere aiuto. «Mi sono sentita piccola come una formica», ricorda. «Ma poi mi sono rimboccata le maniche perché da cristiana so che niente è impossibile». Così la giornalista dà vita alla Rete umanitaria della società civile. Coinvolge i Salesiani per il sociale di don Francesco Preite, il gruppo Abele di don Luigi Ciotti, l’Unione donne in Italia di Vittoria Tola, le Chiese cristiane evangeliche battiste, la cooperativa Una città non basta. Insieme a loro, inventa un modello per portare i profughi in Italia.
I primi giungono subito, a ottobre del 2021. Gli ultimi a novembre scorso. In totale, la Rete porta nel nostro Paese 70 persone, tra donne, uomini, bambini, in collaborazione con le ambasciate e il ministero degli Esteri, in particolare con l’allora viceministra Marina Sereni. «Con le nostre mani abbiamo creato una catena di 6.800 chilometri da Kabul a Roma», racconta. «I rifugiati hanno raggiunto il confine con il Pakistan e l’Iran, ricevuto il visto italiano e preso l’aereo fino a Fiumicino. Hanno venduto tutto per pagare il biglietto, hanno racchiuso in un trolley la loro vita». 

Il seguito sulla rivista.

di Elisabetta Gramolini

Tunisia

Nogoye, originaria del Senegal, ha aperto un ristorante a Tunisi, dove fa conoscere i sapori della propria terra. 

el quartiere di Montplaisir, a Tunisi, Nogoye Ndiaye, 37 anni, accoglie con il sorriso radioso i clienti arrivati dall’Italia al ristorante La marmitte senegalaise. Mentre suo marito, Moussa Seck, 43 anni, gestisce i conti alla cassa, lei guida gli ospiti nella bella e spaziosa sala interna dove viene servito il pranzo tipicamente senegalese, a base di pollo (o pesce a scelta) con il riso e una grande varietà di squisiti succhi di frutta. Ad aiutare Nogoye sono tre dipendenti, Pamela che viene dal Camerun, Bilal, anche lui senegalese, ed Eric, originario della Nigeria. 
Nogoye è emigrata in Tunisia dal Senegal alcuni anni fa. «Sono arrivata qui nel 2013 con un visto turistico per trovare lavoro come donna delle pulizie», racconta. «Ma avevo la passione della gastronomia: ho seguito un corso di cucina e pasticceria e, ottenuto il diploma, ho aperto la pagina Facebook La marmitte per vendere piatti senegalesi a domicilio. Nel 2018 è stata accettata la mia richiesta di aprire un ristorante, ma avevo bisogno di aiuto per intraprendere il mio business. Ho conosciuto il progetto della ong Comitato europeo per la formazione e l’agricoltura (Cefa)-Il seme della solidarietà, mirato a sviluppare l’imprenditorialità dei migranti. Così ho aderito al programma e sono riuscita ad avviare con successo l’attività». Cefa, membro della Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana (Focsiv), lavora per aiutare le comunità più povere in vari Paesi del mondo a raggiungere l’autosufficienza alimentare e il rispetto dei diritti, attraverso programmi di intervento in vari ambiti: agricoltura, lavoro, migrazioni. Considerata Paese di transito o di partenza verso l’Europa tramite il Mediterraneo, la Tunisia è anche, sempre di più, una terra di accoglienza, dove i migranti subsahariani arrivano per restare. Come spiegano Jacopo Granci e Francesca Leone di Cefa in Tunisia, «l’integrazione economica e sociale degli stranieri qui è molto limitata, la disoccupazione è un problema diffuso e la maggior parte dei migranti, come del resto buona parte dei tunisini, sopravvive con lavori informali e irregolari». 

Il seguito sulla rivista.

di Giulia Cerqueti

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