Il lavoro che cambia

Negli ultimi tre anni sono aumentati i lavoratori che abbandonano il posto fisso, alla ricerca di nuove opportunità, di maggiori soddisfazioni, di più autonomia. E anche di una conciliazione tra professione e vita privata.

Da un lato, il cartellino timbrato alle 17 spaccate dal ragionier Ugo Fantozzi, dall’altro le nottate trascorse alla scrivania dell’ufficio, sprofondati nelle carte, circondati da tazzine di caffè. Due modelli opposti di vivere il lavoro. Ma anche modelli che probabilmente stanno lasciando il posto a qualcosa di nuovo. 
I dati di una recente indagine condotta dalla Fondazione studi consulenti del lavoro registrano il fenomeno delle great resignation (grandi dimissioni) anche in Italia: un esercito di un milione e 81 mila dipendenti nei primi nove mesi del 2021 ha deciso di dimettersi e quasi uno su due, dopo l’addio all’azienda, è alla ricerca di un’altra occupazione oppure si sta mettendo in proprio o, ancora, ha compiuto scelte diverse, magari all’insegna dei viaggi e di una ritrovata libertà.
Lo stesso avviene in altri Paesi. Soprattutto negli Stati Uniti, dove una ricerca della società di consulenza McKinsey spiega che la pandemia ha cambiato irrevocabilmente ciò che le persone si aspettano dal lavoro.
In casa nostra, la Fondazione ha scattato la foto in base alle comunicazioni obbligatorie pervenute dal ministero del Lavoro. Secondo i dati, chi rassegna più spesso le dimissioni è maschio, perlopiù di età inferiore ai 35 anni, con un basso titolo di studio, residente al Nord. Al di là dei picchi percentuali, però, il trend riguarda tutti e appare trasversale. Il confronto tra i primi tre trimestri del 2019 e i primi tre del 2021 evidenzia, infatti, che i dimissionari si rintracciano anche tra gli adulti e i laureati.

Il seguito sulla rivista.

di Elisabetta Gramolini

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