Una vita controcorrente

A 83 anni, il regista Pupi Avati non si ferma. Nel film Dante, meditato per molti anni e ispirato al suo libro L’alta fantasia, ci fa conoscere il lato umano del Sommo poeta.  

Non ha mai smesso di lavorare, non si è mai fermato. Neppure in questi due anni e mezzo segnati dalla pandemia. Perché la sua è un’attività indispensabile per la salute. La sua, certo, ma soprattutto la nostra. La salute dell’anima. Pupi Avati è reputato un maestro, eppure lui, che di gavetta sui set ne ha fatta tanta, preferisce che si dica che è un artigiano della settima arte. Un sublime carpentiere che ha costruito una carriera straordinaria attraverso una ricca filmografia: 41 film, 11 titoli per la televisione, 18 libri (perché, assieme a Giuseppe Tornatore, è il cineasta italiano a cui più piace scrivere), tre David di Donatello, un Nastro d’Argento più un’infinità di altri premi. 
E non si tratta di titoli accumulati lì a casaccio, tanto per fare curriculum. Tanti buoni film, alcuni eccelsi: La casa dalle finestre che ridono, Una gita scolastica, Zeder, Regalo di Natale, Storia di ragazzi e di ragazze, Magnificat, Bix, Il cuore altrove, Il papà di Giovanna
Eppure, a 83 anni, Avati non ha perso la voglia di proseguire. «Io e mio fratello Antonio abbiamo fondato nel 1983 la DueA Film, società che finanzia privatamente la realizzazione dei miei progetti senza ricorrere ad aiuti e convenzioni pubbliche», la sua logica giustificazione. «Così la vita quotidiana di una ventina di famiglie, oltre un centinaio di persone, dipende dal nostro lavoro, da ciò che facciamo. Ecco perché non posso fermarmi. Non si tratta solo di girare delle storie. Anche se di spunti e soggetti ho i cassetti pieni». A fine estate 2019, poco prima del lockdown, aveva portato sugli schermi Il signor Diavolo, che ha sancito il ritorno al filone dell’horror gotico padano, a quelle storie di paura narrate un tempo in campagna davanti al camino di cui è maestro e che hanno influenzato grandi registi come Guillermo Del Toro e Quentin Tarantino. Una storia inquietante fatta di religiosità atavica e senso dell’orrendo. 

Il seguito sulla rivista.

di Maurizio Turrioni

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