I vincitori della 93esima notte degli Oscar
La cerimonia per la consegna dei 93° premi Oscar, svoltasi per la prima volta in due sedi parallele (sotto l’abile regìa di Steven Soderbergh, al tradizionale Dolby Theatre si è aggiunta la Union Station di Los Angeles, così da favorire il rispetto delle norme anti covid) con i candidati presenti di persona oppure in collegamento Skype, ha alternato gradite conferme ad alcune amare sorprese. Com’è nel tradizionale copione del più antico e ambìto premio cinematografico. Delusione tricolore per le mancate statuette a Mark Coulier per il trucco e a Massimo Cantini Parrini per i costumi del Pinocchio di Matteo Garrone. E a bocca asciutta è rimasta Laura Pausini in gara con la canzone Io sì (tema de La vita davanti a sé di Edoardo Ponti). Resta la preziosa esperienza e per la Pausini la prestigiosa passerella internazionale concessale dall’Academy che l’ha invitata a cantare il brano, accompagnata da un’orchestra dal vivo, sul tetto del museo del cinema di Los Angeles. Il più importante palco della sua carriera.
Le conferme hanno riguardato soprattutto Nomadland, la toccante pellicola su una tipica comunità nomade americana (già Leone d’oro alla Mostra di Venezia) che si è aggiudicata gli Oscar per il miglior film, per la protagonista Frances McDormand, che abbiamo omaggiato nel precedente articolo, e per la regìa di Chloé Zhao, seconda donna a vincere l’ambito riconoscimento (dopo Kathryn Bigelow nel 2010 con The Hurt Locker) in quasi un secolo di storia. Nonché la prima asiatica: nata a Pechino, è cresciuta in un college di Londra e ha studiato cinema negli Stati Uniti. Significativo che a filmare l’anima buona dell’America che, nonostante estremismi sociali e delitti razziali, c’è ancora e sopravvive alle crisi economiche e politiche, sia stata una giovane donna naturalizzata. A riprova che gli Usa sono stati e restano un grande Paese di immigrati. «Questo premio», ha detto la trentanovenne Zhao, «è per tutti quelli che hanno il coraggio di tenere fede alla bontà che c’è in sé stessi e negli altri. Indipendentemente da quanto possa essere difficile».
Stabilito che Nomadland è il miglior film dell’anno, sono apparsi scontati ma meritati parecchi altri premi secondari caduti a pioggia sui titoli distintisi maggiormente in questa stagione complicata dalla pandemia, vissuta più sulle piattaforme in streaming che nelle sale. L’Oscar per il miglior film d’animazione e quello per la colonna sonora sono andati al cartoon Soul di Pete Docter, ennesimo capolavoro della Disney-Pixar. Miglior fotografia (splendido b/n di Eric Messerschmidt) e scenografie (Donald Graham Burt e Jan Pascale) a Mank di David Fincher, nostalgico film sull’aspra Hollywood dei tempi d’oro prodotto da Netflix. Le statuette per il montaggio e il sonoro sono giustamente andate a Sound of Metal, titolo rivelazione di Amazon Prime. L’Oscar per gli effetti speciali non poteva sfuggire a Tenet di Christopher Nolan le cui mirabolanti invenzioni (firmate da Andrew Jackson, David Lee, Andrew Lockley e Scott Fisher) sono spina dorsale del racconto.
Come non poteva mancare il premio del miglior film straniero all’intenso Un altro giro (Druk) del danese Thomas Vintenberg (anni fa vincitore del Prix du Jury a Cannes con Festen). Toccante il suo ringraziamento: «Lei sarebbe stata qui, avrebbe dovuto far parte del film e adesso avrebbe applaudito e gioito con me», le parole rivolte alla figlia Ida, morta a 19 anni in un incidente. «Le avevo mandato la sceneggiatura, avrebbe fatto la parte della protagonista. Era entusiasta. Purtroppo è morta. Ma questo è un miracolo e lei fa parte di questo miracolo».
Le dolenti note riguardano i premi regalati a due film chiaramente selezionati dall’Academy per dare voce alle sacrosante istanze della comunità nera d’America (esasperata dai sanguinosi abusi della polizia e appena placata dalla prima condanna arrivata per l’ex agente Derek Chauvin, assassino di George Floyd). Per carità, nulla da eccepire su principio e valori, ma il merito cinematografico resta tutt’altra cosa. Le statuette per il miglior attore non protagonista (Daniel Kaluuya) e per la miglior canzone (Fight for you) attribuite al drammatico Judas and the Black Messiah appaiono quanto meno generose per un film che narra in maniera piatta l’omicidio nel 1969 da parte dell’FBI di un leader emergente delle Pantere Nere. Gridano invece vendetta il premio per i costumi e quello per il trucco andati a Ma Rainey’s Black Bottom, pellicola teatrale e noiosetta ispirata alla vera storia Anni Venti della prima grande cantante soul e del suo sgangherato gruppo di musicisti. In entrambe le categorie, il lavoro fatto dagli straordinari artisti italo-francesi per il Pinocchio di Matteo Garrone meritava assai di più. Lungi da qualsiasi istinto campanilistico.
Gradita sorpresa la statuetta per la miglior attrice non protagonista andata alla veterana coreana Yuh-Jung Youn per Minari, delicata storia familiare di resilienza ispirata alle vicende del regista Lee Isaac Chung, altro immigrato felicemente integratosi negli Usa. «Come posso io battere Glenn Close?», ha esclamato la settantatreenne Youn. «Non possiamo competere tra noi. Ho semplicemente avuto più fortuna di voi. Forse, è un segno di ospitalità per una signora coreana». Applausi.
Ugualmente sorprendenti la statuetta della miglior sceneggiatura andata alla regista Emerald Fennel per il thriller Una donna promettente e quella per la miglior sceneggiatura non originale, attribuita a Christopher Hampton e Florian Zeller per il copione di The Father (Nulla è come sembra), drammatica e coinvolgente storia di un uomo, un tempo brillante, al quale la demenza senile fa travisare la realtà. Il bello del film è che il punto di vista è proprio quello dell’anziano, per cui lo spettatore si perde con lui nei meandri di false verità. Tutto si regge sulla straordinaria interpretazione di Anthony Hopkins, premiato come miglior attore protagonista (secondo Oscar dopo quello del 1992 per Il silenzio degli innocenti). Ma sul web sono scoppiate subito le polemiche, alimentate dai fans che avrebbero voluto che fosse premiato Chadwick Boseman per Ma Rainey’s Black Bottom: un riconoscimento postumo per l’attore balzato alla notorietà come primo supereroe nero (in Black Panther) così come era accaduto nel 2009 per Heath Ledger. Ma quanto a bravura, tra i due non c’è paragone. Bene hanno fatto i giurati dell’Academy a resistere a lusinghe e minacce del popolo del web premiando Hopkins. Il quale non si aspettava che gli fosse resa giustizia e, col proverbiale caratterino, aveva scelto di non partecipare alla cerimonia, neppure da remoto. Sorrisi e ringraziamenti, perciò, in un video del giorno dopo. Anche da parte di tutti gli appassionati di cinema che antepongono il merito allo stucchevole politically correct.
Maurizio Turrioni