Frances McDormand Oscar 2021

Frances McDormand con Chloé Zhao alla cerimonia della premiazione

Se nel 1999 il visionario regista Spike Jonze ha diretto Essere John Malkovich, film grottesco giocato sul fascino intellettuale di un attore destinato a essere tra i più grandi della sua generazione, adesso ci sarà qualcuno a Hollywood che penserà di girare Vorrei essere Frances McDormand. La cerimonia per la consegna dei 93° premi Oscar segna infatti la definitiva consacrazione per la carismatica attrice, vincitrice della statuetta di miglior protagonista per la sua interpretazione in Nomadland di Chloé Zhao. In quasi quarant’anni di carriera, Frances McDormand ha saputo come nessun’altra incarnare sullo schermo la figura della donna reale capace di soffrire, amare, lottare e (perché no?) anche divertire senza puntare sullo charme della seduzione.

Non bella e appariscente come certe celebrate colleghe, la McDormand ha saputo conquistare critici e spettatori con la bravura e il fascino di una femminilità intelligente, mai banale. A cominciare dai due personaggi che le hanno fruttato altrettanti Oscar: la Marge di Fargo (poliziotta al settimo mese di gravidanza che da sola riesce a mettere nel sacco una banda di maldestri e perciò ancor più pericolosi malviventi) e la Mildred di Tre manifesti a Ebbing, Missouri (madre divorziata e arrabbiata perché dopo mesi la polizia non ha ancora trovato i colpevoli dello stupro e l’assassinio della figlia adolescente). Due figure emozionanti, dolenti, vere.

Non le sole nella fortunata carriera di Cynthia Ann Smith (questo il vero nome della McDormand).  Basti pensare alle sue prove in pellicole come Mississippi Burning di Alan Parker, Hidden Agenda di Ken Loach, America Oggi di Robert Altman, Paradise Road di Bruce Beresford, This must be the place di Paolo Sorrentino. Dal 1984, anno del debutto (non da raccomandata) col marito regista Joel Coen in Blood Simple, di film ne ha girati una quarantina riuscendo quasi sempre a lasciare il segno.

Con il nuovo trionfo nella notte del 25 aprile (nel corso di una cerimonia senza precedenti causa Covid, orchestrata dal grande regista Steven Soderbergh) la McDormand è arrivata a tre statuette eguagliando Meryl Streep. Pari merito prestigioso, a riprova di una straordinaria bravura. Alla variegata galleria dei suoi personaggi mancava una donna come Fern, coinvolgente protagonista di Nomadland. Questa sessantenne ex insegnante, vedova, alla ricerca di un qualsiasi lavoro negli Stati Uniti in crisi economica e pandemica (passerà anche per Amazon prima di raccogliere barbabietole da zucchero e fare l’inserviente in un parco), si sentirà crollare il mondo addosso quando vedrà scomparire la sua cittadina, spopolata dopo la chiusura della locale cava e letteralmente cancellata dall’elenco dei codici di avviamento postale. Che fare? Sarà l’amica Linda a parlarle di una comunità nomade i cui membri vivono spostandosi su camper e caravan, attraversando in lungo e in largo il grande Ovest americano per ritrovarsi ogni sera attorno al fuoco o a un mercatino del baratto. Una comunità costruita ancora su solidarietà e valori umani che paiono ormai desueti, in cui Fern scoprirà nuovi amici e ritroverà sé stessa.

Girato in sette mesi percorrendo oltre cinquemila miglia attraverso il West, con l’ausilio di una snella troupe guidata dalla regista Chloé Zhao (cinese naturalizzata americana anche lei premiata con l’Oscar) e interpretato quasi tutto da attori non professionisti (Linda, Swankie e Bob Wells, i nuovi amici di Fern, sono davvero dei nomadi mezzi clochard) Nomadland aveva già vinto il Leone d’oro di Venezia prima di correre per gli Oscar. Un piccolo gioiello.

 «È raro che un film piuttosto che alla spettacolarizzazione pensi semplicemente, con onestà, a raccontare una comunità che ha fatto una scelta di vita così speciale», osserva la McDormand, 63 anni portati con brio e un figlio ormai grande, Pedro, ragazzo paraguayano adottato 25 anni fa. «Per trovare i personaggi che facessero da fil rouge nel film siamo partite dalle persone di cui parla Jessica Bruder nel suo libro. Le prime che abbiamo contattato, in verità alquanto stupite che volessimo raccontare le loro storie. Avevo già collaborato con registi che usano lavorare con attori non professionisti, ma nessuno ha l’approccio di Chloé: lei simpatizza con tutti. E tutti hanno subito capito che il nostro scopo era onorare le loro scelte di vita, scoprire le loro verità».  Insieme, attrice e regista hanno elaborato un particolare metodo di lavoro. «Per mesi, abbiamo viaggiato in lungo e in largo per gli Stati Uniti. Con i membri della troupe e i nomadi che partecipavano al film abbiamo instaurato un rapporto strettissimo. Siamo diventati una vera e propria famiglia», ricorda Frances con un pizzico di commozione. «Abbiamo vissuto con le comunità nomadi che incontravano lungo il nostro cammino, senza però mai intrometterci nelle loro vite. Ci muovevamo in maniera fluida, continuando a improvvisare. Mi bastava pensare a come sarebbe stata la vita se avessi fatto quel tipo di scelta».

Qualche critico più esigente rimprovera alla regista Zhao di aver puntato sull’elegìa piuttosto che sulla critica sociale. «Certo, non è tutto quanto soltanto poesia. La scelta di vivere come dei moderni nomadi dipende anche dall’enorme disparità economica in cui si vive negli Stati Uniti: c’è troppa differenza tra chi ha e chi non ha», ammette la McDormand. «Ma Chloé non voleva fare un film politico, voleva solo raccontare la vita di queste persone. Nella pellicola, tanti personaggi fanno parte di una ben precisa generazione: uomini e donne più che maturi, che hanno vissuto gran parte della vita in una casa e poi hanno voluto o dovuto partire. È su questo che abbiamo voluto concentrarci, un punto di vista che a noi è parso estremamente affascinante».

Insomma, sul set si è sviluppato per entrambe un percorso di crescita. Perché, per quanto tu possa affermata, nel mestiere del cinema non si finisce mai di apprendere. «Io e Chloé abbiamo imparato a conoscerci», racconta l’attrice. «A riconoscere il nostro modo di lavorare. Lei, per esempio, mi ha fatto capire l’importanza di restare seduta ad ascoltare. E ascoltare è davvero una parte importante della vita di ogni attore professionista. Ho capito che il mio compito era ascoltare le storie di queste persone, non raccontare la mia. Passando il tempo con i nomadi si finisce per parlare di rocce, di sole, di erba… Cose lontanissime per noi che viviamo in città. Per loro, poi, assume estrema importanza il senso di comunità: s’incontrano, legano tra loro, poi ripartono. Senza però mai dimenticare. Sentono profondamente il bisogno di comunità, anche se muoversi fa parte del loro spirito».

Frances McDormand è anticonformista: «Il mio essere femminista», spiega, «fa sì che incarni donne vulnerabili infondendo loro forza e determinazione. Interpreto donne, quindi ho l’opportunità di cambiare il modo in cui le persone ci vedono. Cosa più facile facendo una parte importante piuttosto che un ruolo di supporto a un protagonista uomo. Di solito, le donne non protagoniste devono solo piangere molto». Ed è pure un’antidiva, allergica ai ritocchini e alle menate da red carpet: «La cosa fantastica dell’invecchiare è che la tua vita è scritta sul tuo viso. Sono interessata ad aprire un dibattito sull’invecchiare con grazia, sul fatto che invece di confrontarci su quello che è un problema culturale lo trattiamo come se fosse un problema della singola persona. Oggi pare che nessuno possa andare oltre i 45 anni, dal punto di vista dell’aspetto come dell’attitudine. Posso permettermi di dirlo perché sono un’attrice caratterista e non una star. Come occuparsi di avere una carriera quando c’è da preoccuparsi di avere una vita? Non mi considero una stella del cinema e posso facilmente convincere chiunque che non lo sono».

                                                                     Maurizio Turrioni

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